Pietro De Silva, il Bartolomeo della ‘Vita è bella' di Benigni, ci racconta la sua visione pessimista del cinema
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Pietro De Silva, il Bartolomeo della ‘Vita è bella' di Benigni, ci racconta la sua visione pessimista del cinema

Ricorda le sue passate collaborazioni con Fellini, Bellocchio e Benigni e fa un’analisi approfondita sullo stato del sistema creativo-produttivo italiano attuale

Pietro De Silva, il Bartolomeo della ‘Vita è bella' di Benigni, ci racconta la sua visione pessimista del cinema
Pietro De Silva
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25 Febbraio 2025 - 18.32 Culture


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di Luisa Marini

Pietro De Silva, romano, classe 1954, è un attore duttile e molto attivo, oltre che drammaturgo. Possiamo definirlo un “attore totale”: fin dai primi anni ’80 ha intessuto la sua carriera interpretando sia ruoli comici che drammatici in molti lavori per il teatro e il cinema, oltre che in note serie televisive e in pubblicità.

Pietro, nella sua carriera spiccano in particolare le sue collaborazioni con Federico Fellini, Roberto Benigni e Marco Bellocchio. Ci può raccontare la sua esperienza?

“Sì, il rapporto professionale con questi tre grandi del cinema ha ovviamente aspetti diversi, li metterei in ordine cronologico, perché il primo in assoluto, quello con Fellini, mi riporta al 1983 nel film E la nave va. Con Fellini si trattava di un piccolo cameo, comunque in un contesto epico, grandioso. Direi che poteva paragonarsi alla Galassia di Andromeda, in cui ogni interprete, dal più piccolo al più grande, era una pennellata in questo suo affresco immenso. Tutti gli interpreti facevano parte di un corpo unico: non esistevano protagonisti, esisteva una narrazione in cui ognuno era un piccolo ingranaggio, felice di esserlo perché protetto da una professionalità ad altissimi livelli, sia dal punto di vista attoriale che tecnico. Lui era un grande navigatore, una sorta di Cristoforo Colombo, un capitano che trascinava con sé centinaia di collaboratori di altissimo livello professionale, tecnico, umano, artistico. Era il classico caso in cui eri felice di far parte di una coralità che non umiliava il singolo. In ogni suo film c’era la magia del cinema e ogni giorno passato su quel set per me era un incanto, quasi un privilegio, il privilegio di far parte di una creatura inventata da un gigante del cinema”.

E con Bellocchio? Con quest’ultimo, proprio in questi giorni sta lavorando nella serie tv “Portobello” su Enzo Tortora.

“Nel caso di Bellocchio, anche lì mi sono trovato a tu per tu con una mente fervida, ironica, evocativa. Ogni tassello faceva parte di questo grande puzzle che è la sua cinematografia, coraggiosa, di denuncia, di impegno e, allo stesso tempo, non descrittiva ma visionaria. Una padronanza di intenti enorme, e questo lo accomunava in un certo senso a Fellini e a tanti altri che sapevano maneggiare la materia cinema perché ne erano pervasi fin dentro l’anima. Anche Bellocchio era uno di quei casi in cui non puoi che affidarti, metterci del tuo, perché ti senti protetto da una sceneggiatura di grandissimo livello e da una forma di comunicazione molto alta.”

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Dunque, tanta similitudine tra i due?

“Entrambi, Fellini e Bellocchio, avevano questa grande capacità di dare risalto agli attori senza ingabbiarli: si innamoravano del talento e lo fomentavano, creando fra interprete e regia una sorta di connubio, di amore corrisposto, sempre con grande discrezione. Quando mi trovavo su quei set, c’era una forma di rispetto che non diventava mai abnegazione o venerazione, ma che era reciproco. I registi non si mettevano mai una spanna sopra gli interpreti, ma amavano valorizzare il talento dei singoli, che a loro volta restituivano valore alle opere, già di per sé preziose. Questa era la dote che li ha sempre accomunati. Bellocchio, ormai, è uno degli ultimi giganti del grande cinema italiano che abbiamo la fortuna di avere ancora in attività, e infatti sta inanellando una serie di pellicole, una più preziosa dell’altra.”

E poi nel 1996 arriva la chiamata di Benigni nel suo capolavoro, La vita è bella. Cosa ha significato per lei partecipare a questo film?

“Con Benigni avevo avuto la fortuna di lavorare per la prima volta nel 1980, ma lo conoscevo già personalmente dal 1978. Sul set de La vita è bella si percepiva già qualcosa che aveva le potenzialità per diventare un’opera destinata a fare la storia. Fin dall’inizio avevamo avuto questa percezione. Io dico sempre che il 70% del successo di un’opera è nella sceneggiatura. Certo, anche una sceneggiatura molto bella può essere vanificata da registi senza talento, ma nel caso di Benigni, come in quello degli altri che ho citato, le sceneggiature sono filtrate da una grandissima sensibilità interpretativa, evocativa e, soprattutto, umana. Resta sempre un ricordo preziosissimo, che si è sedimentato negli anni, e anche se avrò visto la pellicola almeno un centinaio di volte, ogni volta mi dà le stesse emozioni. Lo tengo per me come uno scrigno, il privilegio di averne fatto parte.”

Un vecchio film di metà anni ’80 si intitolava “Sembra morto, ma è solo svenuto”: ricordo un articolo di fine anni ‘90 che giocava con questa frase per analizzare i nuovi autori del cinema italiano di quel periodo. Dopo 30 anni da allora, come percepisce, oggi, il cinema italiano a livello artistico e produttivo?

“Guardi, il cinema italiano è in un baratro, e il problema è che ci siamo infilati da soli. Ormai vediamo sempre gli stessi film, le stesse facce, le stesse storie raccontate allo stesso modo. Non c’è più il coraggio di sperimentare, di osare. Si fanno film che sembrano pensati più per far contenti i festival che per coinvolgere davvero il pubblico. Le sceneggiature? Deboli. I dialoghi? Spesso piatti, senza mordente. E quando arriva qualcosa di buono, magari indipendente, non trova spazio perché il sistema è chiuso, clientelare. I finanziamenti pubblici vanno sempre agli stessi nomi, a quei registi che magari hanno fatto un buon film trent’anni fa e da allora campano di rendita. E così i giovani, quelli con idee fresche, restano fuori. Ma anche gli attori: spesso vengono presi volti della televisione o dei social perché fanno numeri, perché sono riconoscibili, ma non sempre sono adatti. Il risultato? Interpretazioni che non reggono, che non danno verità ai personaggi. E quando il pubblico non si riconosce in quello che vede, semplicemente smette di guardarlo. Infatti, le sale italiane proiettano soprattutto film americani perché quelli italiani, quando escono, durano una settimana e poi spariscono. Nessuno investe sul marketing, sulla distribuzione, e allora chi li deve vedere questi film?”

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Una visione pessimista …

“E poi c’è un altro problema enorme: non esportiamo più nulla. Un tempo il nostro cinema era un riferimento mondiale, oggi fuori dall’Italia si conoscono forse due o tre nomi. Perché? Perché non ci interessa più parlare al mondo, ci chiudiamo nei nostri piccoli racconti autoreferenziali. E questo parte anche dalla formazione. Le scuole di cinema ci sono, ma quante sfornano veri talenti? Sembra che ormai si insegni a fare film come si facevano trent’anni fa, mentre il mondo è andato avanti. Insomma, siamo fermi, bloccati. E finché non si rompe questo circolo vizioso, il cinema italiano continuerà a essere un’ombra di quello che è stato. E adesso è pure peggio, perché hanno chiuso il rubinetto delle sovvenzioni. Già prima produrre era un’impresa, ma ora è quasi impossibile. Anche chi ha una sceneggiatura forte resta al palo perché i fondi non ci sono e nessuno rischia più nulla. La situazione era già sull’orlo del baratro, ma con il nuovo governo è precipitata direttamente nel vuoto”.

Niente di cui rallegrarsi, insomma. Questa situazione la percepisce anche a teatro, in televisione?

“Il sistema produttivo italiano anche nel teatro e nella televisione soffre di una profonda crisi creativa e industriale, alimentata dalla paura del rischio e dalla ricerca ossessiva di sicurezza economica. Nel cinema, come detto, i produttori evitano opere innovative per timore di fallimenti al botteghino, affidandosi invece a nomi di richiamo e sceneggiature convenzionali. Ma questo approccio, lungi dal garantire il successo, si traduce spesso in flop clamorosi. Il coraggio produttivo è ormai un’eccezione, mentre il panorama cinematografico si appiattisce su formule prevedibili, incapaci di sorprendere o lasciare il segno”.

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Come si confronta oggi il cinema con le nuove piattaforme digitali?

“L’industria cinematografica subisce l’effetto di una bulimia di contenuti: l’offerta smisurata delle piattaforme digitali ha reso il consumo di film un’esperienza rapida e superficiale, con poche opere che riescono a sedimentarsi nella memoria collettiva. Troppi film di qualità vengono confinati al circuito festivaliero, rimanendo appannaggio di una ristretta cerchia di addetti ai lavori e senza mai raggiungere il grande pubblico”.

Il teatro è più vivo del cinema?

“Il teatro vive una condizione ancora più desolante. In Italia, le produzioni teatrali sono sempre state limitate, ma oggi si assiste a un impoverimento ulteriore: si ripropongono all’infinito i grandi autori del passato, saturando il mercato con innumerevoli rappresentazioni di Pirandello, Molière ecc., mentre la nuova drammaturgia fatica a trovare spazio. I rari esperimenti di innovazione finiscono relegati a circuiti di nicchia, privi di reale visibilità. Dal punto di vista professionale, la situazione degli attori teatrali è drammatica: il teatro non è più una professione sostenibile, ma un hobby precario. Le giovani compagnie si barcamenano tra condizioni lavorative instabili e scarse tutele, con compensi che non permettono di condurre un’esistenza dignitosa. I costi di produzione proibitivi spingono verso spettacoli con pochi interpreti, riducendo drasticamente le possibilità espressive. Nel frattempo, il teatro commerciale si rifugia in musical sontuosi o in spettacoli di cabaret dozzinale, mentre il teatro di ricerca lotta per sopravvivere”.

E in televisione?

“Anche la televisione non offre conforto: le reti generaliste abbassano continuamente il livello dei contenuti per non turbare il pubblico, trattandolo come un bambino incapace di pensiero critico. Le fiction si rifugiano in storie rassicuranti e dialoghi improbabili, riducendo la narrazione a un prodotto banale e prevedibile. L’illusione che il pubblico sia composto da spettatori passivi e senza esigenze intellettuali porta a un circolo vizioso in cui la mediocrità alimenta la disaffezione degli spettatori”.

Dunque, tutto è perduto?

“Il panorama è sconfortante, ma non privo di eccezioni. Esistono autori straordinari, sia in teatro che nel cinema, capaci di realizzare opere di grande valore. Tuttavia, il successo di un film o di uno spettacolo resta un caso isolato, incapace di trascinare l’intero settore verso un nuovo slancio creativo. Non basta sperare in un cambiamento spontaneo: occorre agire, contrastare l’appiattimento culturale e restituire dignità all’arte. Solo così si potrà ricostruire un rapporto autentico con il pubblico, oggi sempre più alienato da un’offerta che non lo rispecchia e non lo stimola”.

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