Libia, uno Stato fallito in mano alle milizie: perché non se ne prende atto?
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Libia, uno Stato fallito in mano alle milizie: perché non se ne prende atto?

Globalist è fuori dal coro. Ne siamo orgogliosi. Così come ci confortano le considerazioni di colleghi che conoscono le cose e non le edulcorano per compiacere il potente (governativo) di turno.

Libia, uno Stato fallito in mano alle milizie: perché non se ne prende atto?
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Settembre 2023 - 13.58


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Realtà e finzione

Globalist è fuori dal coro. Ne siamo orgogliosi. Così come ci confortano le considerazioni di colleghi che conoscono le cose e non le edulcorano per compiacere il potente (governativo) di turno.

Tra questi colleghi con la schiena dritta c’è Nello Scavo.

Così scrive su Avvenire: “«Rigettiamo totalmente ogni forma di normalizzazione con Israele e ci schieriamo dalla parte del popolo palestinese, della sua giusta causa», per cui «condanniamo gli attacchi continui contro i suoi diritti». Lo ha affermato il premier libico Dbeibah a proposito dell’incontro della scorsa settimana a Roma tra la sua ormai ex ministra degli Esteri, Najla al Mangoush, e il suo omologo israeliano, Eli Cohen. Secondo il premier di Tripoli, «quali che siano le circostanze, le ragioni, il metodo, le cattive o buone intenzioni, conosceremo tutti i dettagli di ciò che è avvenuto a Roma grazie alle inchieste in corso». 

Il risultato sono focolai di proteste in tutta la Libia, dove il sentimento antisraeliano è un collante che supera le barriere dei clan e determina il destino di governi e leader politici. Dopo l’apparente calma nel venerdì di preghiera, dal tramonto è stato schierato nella capitale un massiccio numero di uomini delle varie forze di sicurezza, temendo proteste contro il governo e contro i suoi alleati, Italia compresa. Roma è infatti accusata da diversi capiclan libici di essersi non solo prestata all’incontro Libia-Israele, ma di averlo organizzato. Alla Farnesina stanno cercando di salvare il salvabile, aggrappandosi a relazioni corroborate per non estromettere l’Italia dalla gestione del dossier libico. Tripoli ha infatti detto no al candidato italiano per la guida della missione Ue in Libia e il secondo in graduatoria è un diplomatico francese. 

«Non bisogna confondere l’Italia con l’Unione europea. Il problema è il candidato del servizio esterno dell’Unione europea: il nostro nuovo ambasciatore in Libia ha avuto l’accoglienza delle credenziali, è stato gradito, qualcuno ha scritto cose non vere», ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Parigi e Roma da anni sgomitano e non se le mandano a dire. Pochi giorni dopo il vertice in Libia tra i capi delle forze di polizia e intelligence italiane, all’inizio del 2023, con il nuovo ministro dell’interno libico Trabelsi (segnalato dall’Onu per attività illecite e per essere un noto capobanda dell’Ovest), questi venne fermato in aeroporto a Parigi e trattenuto con l’accusa di traffico di valuta: oltre mezzo milione di euro in contanti non dichiarati alla dogana. Un avvertimento per l’Italia che con il “Piano Mattei” vorrebbe riprendere il controllo dei campi petroliferi e influenzare la politica di diversi Paesi africani che con Parigi hanno rapporti tesi. 

Ma come sempre accade in Libia, la serie di defaillance politico-diplomatiche viene sottolineata con la riapertura delle partenze dei migranti, momentaneamente spostati in Tunisia e che negli ultimi giorni hanno visto numerosi barconi salpati di nuovo dalle coste libiche. La cosiddetta Guardia costiera di Tripoli – composta da almeno tre milizie marittime a cui si è aggiunta quella di Bengasi guidata dal figlio del generale Haftar – oramai agisce incurante dei testimoni scomodi. Sotto gli occhi dell’aereo di monitoraggio di Sea Watch, una delle motovedette è stata vista avvicinarsi a un barcone di migranti allo scopo di recuperarne il motore. Una operazione mirata, come documentato anche in passato, e da cui i guardacoste traggono un vantaggio rimettendo i costosi motori fuoribordo nel circuito di mercato illecito. Ancora una volta le analisi delle Nazioni Unite prendono di mira la filiera degli abusi e accusano i sostenitori internazionali del “sistema Libia”. 

«Migliaia di migranti e richiedenti asilo detenuti in varie strutture nella Libia occidentale devono affrontare trattamenti disumani, tra cui la negazione dei diritti legali, la deliberata negligenza medica, la tortura fisica e psicologica, l’estorsione e le molestie sessuali», si legge in una nota di aggiornamento delle agenzie umanitarie Onu del 31 agosto. Secondo le testimonianze di ex detenuti del centro di detenzione “Abu Salim”, dove il corpo di una donna senza vita è stato lasciato dai carcerieri in mezzo agli altri detenuti, «ai migranti vengono abitualmente negate procedure legali adeguate e vengono trattenuti fino a quando – è scritto – non riescono a procurarsi denaro sufficiente per corrompere i funzionari statali o gli impiegati del centro, una somma che il più delle volte raggiunge i 1.000 dollari». 

EuroMed Rights, il network di 70 organizzazioni per i diritti umani di 30 paesi, spiega nel report citato da ReliefWeb, il servizio di informazioni umanitarie fornito dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), che «lo stato spaventoso del centro di detenzione di Abu Salim esemplifica le condizioni prevalenti nella maggior parte dei centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo in Libia». Strutture generalmente gestite dalla «Direzione libica per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) del Ministero dell’Interno, che riceve sostegno finanziario e logistico dall’Italia e dall’Unione Europea». A capo del Dipartimento il governo Dbeibah ha nominato Mohamed al-Khoja, uno spietato capo milizia su cui indagano gli ispettori Onu per violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e altri traffici illeciti. Secondo la nota di aggiornamento di “Reliefweb” «alcune morti di migranti nei centri di detenzione libici dovrebbero essere trattate come omicidi, e tutte le parti coinvolte dovrebbero essere ritenute penalmente responsabili e consegnate alla giustizia».

Così Scavo

Un Paese in mano alle milizie 

Annota Emanuele Rossi per formiche.net: “Mentre la calma è apparentemente tornata a Tripoli, i fatti di questi giorni sono solo l’ultimo di una serie di scontri di questo genere, e rappresentano un quadro di instabilità sostanziale. Le milizie hanno assunto una posizione via via più dominante nel sistema/Paese libico, anche perché i vari fronti politici si sono legati a esse per ricevere protezione e garantirsi posizioni. Il governo che Abdelhamid Dabaiba guida attraverso un mandato, scaduto, ricevuto tramite le Nazioni Unite, è per esempio molto connesso alle milizie, e la permanenza dell’incarico è stata anche frutto di una sistemazione con i gruppi mediata dallo stesso primo ministro. In questa fase in cui si stanno creando i presupposti per un nuovo esecutivo — frutto di un accordo Est-Ovest che potrebbe anche portare alle elezioni — e con Dabaiba non intenzionato a lasciare, le tensioni aumentano. Lo sfogo militare in Libia è (per quanto assurdo) quasi una conseguenza naturale.

Il panorama delle milizie libiche ha le sue radici nei gruppi informali di combattenti sorti in seguito al rovesciamento del lungo regime del dittatore Muammar Gheddafi nel corso della rivoluzione del 2011. Durante i combattimenti successivi, le comunità locali si sono unite o separate a secondo degli interessi più confacenti per difendere i propri territori e contrapporsi alle forze fedeli a Gheddafi. Dal 2014, la Libia è stata divisa in due entità governative separate, una ad est e una ad ovest. Nonostante alcune evoluzioni nel corso degli anni, le divisioni restano. Ciascuna di queste fazioni è sostenuta da una serie di milizie locali che in alcuni casi sono state anche in grado di sviluppare accordi con forze straniere. In passato le milizie sono stati i proxy operativi di scontri per procura avvenuti tra Paesi rivali sul suolo libico.

Con il passare del tempo, i gruppi armati libici si sono sviluppati e sono diventati parte delle istituzioni di sicurezza statali, ricevendo finanziamenti anche dal governo. Da lì le milizie hanno messo le mani su altre realtà economiche e di potere nel Paese. La mancanza di un governo centrale forte ha permesso la proliferazione di questi gruppi armati. Nell’est della Libia, il signore della guerra divenuto politico Khalifa Haftar è riuscito a consolidare il controllo su varie unità armate minori che da tempo operano sotto la sua guida. Nell’ovest, sebbene ultimamente il numero di milizie sia diminuito, sono diventate più potenti e divise. I recenti scontri dimostrano come la questione intra-Tripolitania sia un problema tanto quanto le divisioni con la Cirenaica.

La maggior parte di questi gruppi armati, grazie  alla connessione con organismi ufficiali (come i ministeri), opera “sotto la copertura della legittimità statale” come spiegato da Wolfram Lacher,  ricercatore presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza. Lacher, uno dei massimi esperti al mondo sul contatto libico, aggiunge che “in realtà [le milizie] difendono principalmente gli interessi dei loro leader, dei membri o della loro base sociale, sfuggendo in gran parte al controllo statale”. In un contesto del genere, non solo è difficile gestire i rapporti presenti con Tripoli, ma è impossibile prevedere il futuro del Paese”.

Proteste e rivolte

Da un report di Agenzia Nova, particolarmente informata e puntuale delle vicende libiche: “Proteste anti-governative e anti-israeliane si sono svolte nella capitale Tripoli e in altre città libiche come Zawiya e Misurata, sede di potenti milizie che non solo rifiutano ogni normalizzazione con Israele, ma chiedono anche le dimissioni del premier “ad interim”,Abdulhamid Dabaiba. Fonti libiche indicano che l’incontro informale tra Mangoush e Cohen era stato autorizzato dal capo dell’esecutivo, che ieri si è affrettato a visitare l’ambasciata palestinese a Tripoli, annunciando la rimozione di Mangoush dall’incarico e ribadendo un secco “no” a ogni tentativo di instaurare relazioni con lo Stato ebraico. Intanto, la ministra libica – già oggetto in passato di critiche tanto a Tripoli quanto a Bengasi – è fuggita a Londra, dopo aver lasciato il Paese a bordo di un jet privato. Non è chiaro se questo basterà a placare la rabbia popolare e, soprattutto, a sedare le milizie che minacciano di marciare su Tripoli. “Dabaiba può ancora sopravvivere. Sta cercando di resistere e tenterà ogni strada possibile per rimanere al potere”, commenta ad “Agenzia Nova” Jalel Harchaoui, associate fellow presso il Royal United Services Institute.

Pochi giorni fa, l’esecutivo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite aveva subito un duro colpo dagli Stati Uniti, che per la prima volta avevano sostenuto l’idea di insediare un nuovo governo tecnico per traghettare il Paese alle elezioni, scaricando di fatto Dabaiba. Non solo. A est, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar ha rafforzato i rapporti con Mosca grazie alla visita a Bengasi del viceministro Yunus-Bek Yevkurov. Una visita avvenuta poche ore prima della morte di Evgenij Prigozhin, leader del gruppo Wagner presente in Libia con diverse centinaia di mercenari tra le fila dell’Lna. Poco dopo, la Brigata Tariq bin Ziyad di Saddam Haftar, figlio dell’uomo forte della Cirenaica, ha lanciato un’operazione militare di terra e aerea contro i gruppi dell’opposizione ciadiana e le milizie delle tribù Tebu nel Fezzan, la regione meridionale libica ricca di petrolio e miniere d’oro al confine con Ciad e Niger. Intanto la Camera dei rappresentanti libica – da tempo in rotta con il premier Dabaiba – ha raccomandato che il Comitato 6+6 per redigere le “regole” per andare alle auspicate elezioni (forse nel 2024) non permetta a chi abbia avuto contatti con Israele di candidarsi alle elezioni. Tutti sviluppi che evidenziano come la Libia resti un Paese fragile, teatro di scontri e divisioni tra coalizioni politiche e militari rivali. Un Paese di fatto senza un governo eletto e difficilmente in grado di sopportare il “peso” di decisioni complesse e importanti come la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico.

Secondo il portale statunitense “Axios, l’amministrazione del presidente Joe Biden stava lavorando alle relazioni tra lo Stato ebraico e l’ex Jamahiriyya di Muammar Gheddafi da due anni. In effetti, informazioni su un presunto incontro in Giordania tra il premier libico Dabaiba e il direttore del Mossad, David Barnea, erano trapelate a gennaio 2022. Ma erano state prontamente smentite da Tripoli senza particolare clamore. A stupire (e a irritare) stavolta è stato il carattere ufficiale dell’annuncio del ministro Cohen. L’esposizione mediatica dell’incontro coperto da riserbo “non solo annienterà gli sforzi di normalizzazione tra Israele e Libia, ma danneggerà anche i tentativi in corso con altri paesi arabi”, aggiunge Axios, citando un funzionario statunitense. Un riferimento, quest’ultimo, al “colpo diplomatico” a cui stanno lavorando gli Stati Uniti, ovvero la normalizzazione tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita, il Paese custode dei luoghi sacri dell’Islam.

Intanto, una fonte diplomatica israeliana ha aspramente criticato la decisione di rendere pubblica la notizia dell’incontro tra Cohen e Mangoush. “Questo è indice del dilettantismo con cui vengono gestite le relazioni internazionali. D’ora in poi i paesi che non hanno relazioni diplomatiche con Israele avranno paura di mantenere contatti segreti per il timore di farsi ingannare, visto che è stato dimostrato che la parte israeliana non sa come mantenere segreti gli incontri”, riferisce la fonte al sito web israeliano “Ynet”. Il capo dell’opposizione di Israele e leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, ha definito la diffusione della notizia dell’incontro “amatoriale, irresponsabile e una grave mancanza di giudizio”.

Vale la pena ricordare che a dicembre Cohen lascerà l’incarico a Israel Katz, come parte della classica turnazione nella compagine di governo. Finora, peraltro, il ruolo del capo della diplomazia è stato “oscurato” da Ron Dermer, ministro degli Affari strategici più vicino al premier Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, molto irritato dall’accaduto, ha chiesto ai ministeri di coordinare in anticipo “incontri politici segreti” con il suo ufficio. “Cohen ha deciso di colpire il primo ministro Netanyahu, avendo come unico criterio la politica interna e ignorando tutto il resto, compresa la sicurezza nazionale del proprio Paese”, commenta infine Harchaoui”.

Uno Stato fallito, in mano alle milizie. E’ la Libia del post-Gheddafi. Ma a Roma, e a Bruxelles (UE), fanno finta di nulla. 

Ognuno può costruirsi il film che vuole. Abboccare alle veline di palazzo (Chigi), rilanciate dai media mainstream, che spacciano fallimenti per successi, e ripetono a getto continuo suggestioni campate in aria come il “Piano Mattei” per l’Africa.

Realtà e finzione

Globalist è fuori dal coro. Ne siamo orgogliosi. Così come ci confortano le considerazioni di colleghi che conoscono le cose e non le edulcorano per compiacere il potente (governativo) di turno.

Tra questi colleghi con la schiena dritta c’è Nello Scavo.

Così scrive su Avvenire: “«Rigettiamo totalmente ogni forma di normalizzazione con Israele e ci schieriamo dalla parte del popolo palestinese, della sua giusta causa», per cui «condanniamo gli attacchi continui contro i suoi diritti». Lo ha affermato il premier libico Dbeibah a proposito dell’incontro della scorsa settimana a Roma tra la sua ormai ex ministra degli Esteri, Najla al Mangoush, e il suo omologo israeliano, Eli Cohen. Secondo il premier di Tripoli, «quali che siano le circostanze, le ragioni, il metodo, le cattive o buone intenzioni, conosceremo tutti i dettagli di ciò che è avvenuto a Roma grazie alle inchieste in corso». 

Il risultato sono focolai di proteste in tutta la Libia, dove il sentimento antisraeliano è un collante che supera le barriere dei clan e determina il destino di governi e leader politici. Dopo l’apparente calma nel venerdì di preghiera, dal tramonto è stato schierato nella capitale un massiccio numero di uomini delle varie forze di sicurezza, temendo proteste contro il governo e contro i suoi alleati, Italia compresa. Roma è infatti accusata da diversi capiclan libici di essersi non solo prestata all’incontro Libia-Israele, ma di averlo organizzato. Alla Farnesina stanno cercando di salvare il salvabile, aggrappandosi a relazioni corroborate per non estromettere l’Italia dalla gestione del dossier libico. Tripoli ha infatti detto no al candidato italiano per la guida della missione Ue in Libia e il secondo in graduatoria è un diplomatico francese. 

«Non bisogna confondere l’Italia con l’Unione europea. Il problema è il candidato del servizio esterno dell’Unione europea: il nostro nuovo ambasciatore in Libia ha avuto l’accoglienza delle credenziali, è stato gradito, qualcuno ha scritto cose non vere», ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Parigi e Roma da anni sgomitano e non se le mandano a dire. Pochi giorni dopo il vertice in Libia tra i capi delle forze di polizia e intelligence italiane, all’inizio del 2023, con il nuovo ministro dell’interno libico Trabelsi (segnalato dall’Onu per attività illecite e per essere un noto capobanda dell’Ovest), questi venne fermato in aeroporto a Parigi e trattenuto con l’accusa di traffico di valuta: oltre mezzo milione di euro in contanti non dichiarati alla dogana. Un avvertimento per l’Italia che con il “Piano Mattei” vorrebbe riprendere il controllo dei campi petroliferi e influenzare la politica di diversi Paesi africani che con Parigi hanno rapporti tesi. 

Ma come sempre accade in Libia, la serie di defaillance politico-diplomatiche viene sottolineata con la riapertura delle partenze dei migranti, momentaneamente spostati in Tunisia e che negli ultimi giorni hanno visto numerosi barconi salpati di nuovo dalle coste libiche. La cosiddetta Guardia costiera di Tripoli – composta da almeno tre milizie marittime a cui si è aggiunta quella di Bengasi guidata dal figlio del generale Haftar – oramai agisce incurante dei testimoni scomodi. Sotto gli occhi dell’aereo di monitoraggio di Sea Watch, una delle motovedette è stata vista avvicinarsi a un barcone di migranti allo scopo di recuperarne il motore. Una operazione mirata, come documentato anche in passato, e da cui i guardacoste traggono un vantaggio rimettendo i costosi motori fuoribordo nel circuito di mercato illecito. Ancora una volta le analisi delle Nazioni Unite prendono di mira la filiera degli abusi e accusano i sostenitori internazionali del “sistema Libia”. 

«Migliaia di migranti e richiedenti asilo detenuti in varie strutture nella Libia occidentale devono affrontare trattamenti disumani, tra cui la negazione dei diritti legali, la deliberata negligenza medica, la tortura fisica e psicologica, l’estorsione e le molestie sessuali», si legge in una nota di aggiornamento delle agenzie umanitarie Onu del 31 agosto. Secondo le testimonianze di ex detenuti del centro di detenzione “Abu Salim”, dove il corpo di una donna senza vita è stato lasciato dai carcerieri in mezzo agli altri detenuti, «ai migranti vengono abitualmente negate procedure legali adeguate e vengono trattenuti fino a quando – è scritto – non riescono a procurarsi denaro sufficiente per corrompere i funzionari statali o gli impiegati del centro, una somma che il più delle volte raggiunge i 1.000 dollari». 

EuroMed Rights, il network di 70 organizzazioni per i diritti umani di 30 paesi, spiega nel report citato da ReliefWeb, il servizio di informazioni umanitarie fornito dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), che «lo stato spaventoso del centro di detenzione di Abu Salim esemplifica le condizioni prevalenti nella maggior parte dei centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo in Libia». Strutture generalmente gestite dalla «Direzione libica per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) del Ministero dell’Interno, che riceve sostegno finanziario e logistico dall’Italia e dall’Unione Europea». A capo del Dipartimento il governo Dbeibah ha nominato Mohamed al-Khoja, uno spietato capo milizia su cui indagano gli ispettori Onu per violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e altri traffici illeciti. Secondo la nota di aggiornamento di “Reliefweb” «alcune morti di migranti nei centri di detenzione libici dovrebbero essere trattate come omicidi, e tutte le parti coinvolte dovrebbero essere ritenute penalmente responsabili e consegnate alla giustizia».

Così Scavo

Un Paese in mano alle milizie 

Annota Emanuele Rossi per formiche.net: “Mentre la calma è apparentemente tornata a Tripoli, i fatti di questi giorni sono solo l’ultimo di una serie di scontri di questo genere, e rappresentano un quadro di instabilità sostanziale. Le milizie hanno assunto una posizione via via più dominante nel sistema/Paese libico, anche perché i vari fronti politici si sono legati a esse per ricevere protezione e garantirsi posizioni. Il governo che Abdelhamid Dabaiba guida attraverso un mandato, scaduto, ricevuto tramite le Nazioni Unite, è per esempio molto connesso alle milizie, e la permanenza dell’incarico è stata anche frutto di una sistemazione con i gruppi mediata dallo stesso primo ministro. In questa fase in cui si stanno creando i presupposti per un nuovo esecutivo — frutto di un accordo Est-Ovest che potrebbe anche portare alle elezioni — e con Dabaiba non intenzionato a lasciare, le tensioni aumentano. Lo sfogo militare in Libia è (per quanto assurdo) quasi una conseguenza naturale.

Il panorama delle milizie libiche ha le sue radici nei gruppi informali di combattenti sorti in seguito al rovesciamento del lungo regime del dittatore Muammar Gheddafi nel corso della rivoluzione del 2011. Durante i combattimenti successivi, le comunità locali si sono unite o separate a secondo degli interessi più confacenti per difendere i propri territori e contrapporsi alle forze fedeli a Gheddafi. Dal 2014, la Libia è stata divisa in due entità governative separate, una ad est e una ad ovest. Nonostante alcune evoluzioni nel corso degli anni, le divisioni restano. Ciascuna di queste fazioni è sostenuta da una serie di milizie locali che in alcuni casi sono state anche in grado di sviluppare accordi con forze straniere. In passato le milizie sono stati i proxy operativi di scontri per procura avvenuti tra Paesi rivali sul suolo libico.

Con il passare del tempo, i gruppi armati libici si sono sviluppati e sono diventati parte delle istituzioni di sicurezza statali, ricevendo finanziamenti anche dal governo. Da lì le milizie hanno messo le mani su altre realtà economiche e di potere nel Paese. La mancanza di un governo centrale forte ha permesso la proliferazione di questi gruppi armati. Nell’est della Libia, il signore della guerra divenuto politico Khalifa Haftar è riuscito a consolidare il controllo su varie unità armate minori che da tempo operano sotto la sua guida. Nell’ovest, sebbene ultimamente il numero di milizie sia diminuito, sono diventate più potenti e divise. I recenti scontri dimostrano come la questione intra-Tripolitania sia un problema tanto quanto le divisioni con la Cirenaica.

La maggior parte di questi gruppi armati, grazie  alla connessione con organismi ufficiali (come i ministeri), opera “sotto la copertura della legittimità statale” come spiegato da Wolfram Lacher,  ricercatore presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza. Lacher, uno dei massimi esperti al mondo sul contatto libico, aggiunge che “in realtà [le milizie] difendono principalmente gli interessi dei loro leader, dei membri o della loro base sociale, sfuggendo in gran parte al controllo statale”. In un contesto del genere, non solo è difficile gestire i rapporti presenti con Tripoli, ma è impossibile prevedere il futuro del Paese”.

Proteste e rivolte

Da un report di Agenzia Nova, particolarmente informata e puntuale delle vicende libiche: “Proteste anti-governative e anti-israeliane si sono svolte nella capitale Tripoli e in altre città libiche come Zawiya e Misurata, sede di potenti milizie che non solo rifiutano ogni normalizzazione con Israele, ma chiedono anche le dimissioni del premier “ad interim”,Abdulhamid Dabaiba. Fonti libiche indicano che l’incontro informale tra Mangoush e Cohen era stato autorizzato dal capo dell’esecutivo, che ieri si è affrettato a visitare l’ambasciata palestinese a Tripoli, annunciando la rimozione di Mangoush dall’incarico e ribadendo un secco “no” a ogni tentativo di instaurare relazioni con lo Stato ebraico. Intanto, la ministra libica – già oggetto in passato di critiche tanto a Tripoli quanto a Bengasi – è fuggita a Londra, dopo aver lasciato il Paese a bordo di un jet privato. Non è chiaro se questo basterà a placare la rabbia popolare e, soprattutto, a sedare le milizie che minacciano di marciare su Tripoli. “Dabaiba può ancora sopravvivere. Sta cercando di resistere e tenterà ogni strada possibile per rimanere al potere”, commenta ad “Agenzia Nova” Jalel Harchaoui, associate fellow presso il Royal United Services Institute.

Pochi giorni fa, l’esecutivo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite aveva subito un duro colpo dagli Stati Uniti, che per la prima volta avevano sostenuto l’idea di insediare un nuovo governo tecnico per traghettare il Paese alle elezioni, scaricando di fatto Dabaiba. Non solo. A est, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar ha rafforzato i rapporti con Mosca grazie alla visita a Bengasi del viceministro Yunus-Bek Yevkurov. Una visita avvenuta poche ore prima della morte di Evgenij Prigozhin, leader del gruppo Wagner presente in Libia con diverse centinaia di mercenari tra le fila dell’Lna. Poco dopo, la Brigata Tariq bin Ziyad di Saddam Haftar, figlio dell’uomo forte della Cirenaica, ha lanciato un’operazione militare di terra e aerea contro i gruppi dell’opposizione ciadiana e le milizie delle tribù Tebu nel Fezzan, la regione meridionale libica ricca di petrolio e miniere d’oro al confine con Ciad e Niger. Intanto la Camera dei rappresentanti libica – da tempo in rotta con il premier Dabaiba – ha raccomandato che il Comitato 6+6 per redigere le “regole” per andare alle auspicate elezioni (forse nel 2024) non permetta a chi abbia avuto contatti con Israele di candidarsi alle elezioni. Tutti sviluppi che evidenziano come la Libia resti un Paese fragile, teatro di scontri e divisioni tra coalizioni politiche e militari rivali. Un Paese di fatto senza un governo eletto e difficilmente in grado di sopportare il “peso” di decisioni complesse e importanti come la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico.

Secondo il portale statunitense “Axios, l’amministrazione del presidente Joe Biden stava lavorando alle relazioni tra lo Stato ebraico e l’ex Jamahiriyya di Muammar Gheddafi da due anni. In effetti, informazioni su un presunto incontro in Giordania tra il premier libico Dabaiba e il direttore del Mossad, David Barnea, erano trapelate a gennaio 2022. Ma erano state prontamente smentite da Tripoli senza particolare clamore. A stupire (e a irritare) stavolta è stato il carattere ufficiale dell’annuncio del ministro Cohen. L’esposizione mediatica dell’incontro coperto da riserbo “non solo annienterà gli sforzi di normalizzazione tra Israele e Libia, ma danneggerà anche i tentativi in corso con altri paesi arabi”, aggiunge Axios, citando un funzionario statunitense. Un riferimento, quest’ultimo, al “colpo diplomatico” a cui stanno lavorando gli Stati Uniti, ovvero la normalizzazione tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita, il Paese custode dei luoghi sacri dell’Islam.

Intanto, una fonte diplomatica israeliana ha aspramente criticato la decisione di rendere pubblica la notizia dell’incontro tra Cohen e Mangoush. “Questo è indice del dilettantismo con cui vengono gestite le relazioni internazionali. D’ora in poi i paesi che non hanno relazioni diplomatiche con Israele avranno paura di mantenere contatti segreti per il timore di farsi ingannare, visto che è stato dimostrato che la parte israeliana non sa come mantenere segreti gli incontri”, riferisce la fonte al sito web israeliano “Ynet”. Il capo dell’opposizione di Israele e leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, ha definito la diffusione della notizia dell’incontro “amatoriale, irresponsabile e una grave mancanza di giudizio”.

Vale la pena ricordare che a dicembre Cohen lascerà l’incarico a Israel Katz, come parte della classica turnazione nella compagine di governo. Finora, peraltro, il ruolo del capo della diplomazia è stato “oscurato” da Ron Dermer, ministro degli Affari strategici più vicino al premier Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, molto irritato dall’accaduto, ha chiesto ai ministeri di coordinare in anticipo “incontri politici segreti” con il suo ufficio. “Cohen ha deciso di colpire il primo ministro Netanyahu, avendo come unico criterio la politica interna e ignorando tutto il resto, compresa la sicurezza nazionale del proprio Paese”, commenta infine Harchaoui”.

Uno Stato fallito, in mano alle milizie. E’ la Libia del post-Gheddafi. Ma a Roma, e a Bruxelles (UE), fanno finta di nulla. 

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