Migranti, ci risiamo con il blocco navale: l'ultima versione dell'"ammiraglia" Meloni
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Migranti, ci risiamo con il blocco navale: l'ultima versione dell'"ammiraglia" Meloni

Giorgia Meloni, anche da premier, torna  a vestire i panni dell’”ammiraglia”, e ritira fuori la suggestione, sciagurata quanto irrealistica, del blocco navale.

Migranti, ci risiamo con il blocco navale: l'ultima versione dell'"ammiraglia" Meloni
Giorgia Meloni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Marzo 2023 - 19.06


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Ci risiamo. Giorgia Meloni, anche da premier, torna  a vestire i panni dell’”ammiraglia”, e ritira fuori la suggestione, sciagurata quanto irrealistica, del blocco navale. Stavolta, rispetto al passato, con due aggiunte: il blocco navale deve essere europeo e che deve coinvolgere il governo libico (quale sarebbe questo governo, visto che nello Stato fallito di nome Libia di “governi” ce ne sarebbero due, come due i parlamenti oltre a più di 150 tra milizie e tribù in armi che controllano buona parte del territorio libico”. Quanto poi all’Europa, una siffatta operazione non è all’ordine del giorno e probabilmente non lo sarà mai. Per fortuna, aggiungiamo noi di Globalist

Ci risiamo

“Ho sempre configurato il blocco navale come proposta europea in collaborazione con l’autorità libica. Pensate di sapere meglio di me cosa dico e cosa penso? Gli atti lo confermeranno. Io lavoro per un obiettivo di questo tipo, per una missione europea che blocchi le partenze in collaborazione con autorità africane, quindi anche libiche, e con una cooperazione che porti sviluppo”. Così la  premier alla Camera, nella sua replica nel dibattito sulle comunicazioni in vista del Consiglio europeo. 

Promemoria per chi fa finta di non capire

Per implementare il blocco navale – rileva un report del Geopolitical Center – dovrebbero  essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti. 

Se si vuole stabilizzare per davvero la Libia, dice a Globalist il generale Fabio Mini, ex comandante Nato, ora brillante saggista, servirebbero ”come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone”. E occorrerebbe mettere in conto almeno 50 morti a settimana.

Gli fa il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nella missione di pace “Libano 2” e delle Forze Terrestri Alleate del Sud Europa. “Voler considerare la Libia di oggi come se si trattasse di una nazione organizzata su principi di carattere politico e strategico tradizionali, è una bestemmia – annota Angioni -. L’attuale confusione esistente in quest’area nordafricana a noi particolarmente conosciuta non consente di esprimere sulla Libia di oggi qualsiasi considerazione logica e avveduta. A regnare oggi in Libia è il caos, un caos armato, è la confusione, l’illecito, la malvagità, gli interessi più abietti che possono essere presi in considerazione in una comunità umana. La tragedia della Libia coinvolge esseri umani che con la Libia non hanno nulla a che fare e che anzi sarebbero ben felici di non essere in quel territorio, in quell’inferno.  Purtroppo per l’umanità, la Libia è la meta di decine di migliaia di persone dell’Africa disperate al punto di essere disposte a correre il rischio di essere uccise pur di avvicinarsi all’Europa. La Libia – rimarca il generale Angioni – è ancor oggi una ‘palestra’ di arroganza nella quale agiscono attori esterni che conducono una guerra per procura. Pensare di poter affrontare questa situazione con qualche nave è una sciocchezza, una pericolosa sciocchezza. Sarebbe auspicabile che un organismo sovranazionale, come l’Onu ad esempio, imponesse con decisione la propria presenza non tanto per risolvere la drammatica situazione che segna la Libia ma almeno per ridurre il numero delle vittime”.

“Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco”. Lo afferma al Corriere della Sera, il generale Claudio Graziano, a quei tempi Capo di Stato Maggiore della Difesa. 

Impossibile pensare di attuare un blocco navale davanti alle coste libiche: una soluzione “irrealizzabile” sia da un punto di vista giuridico che tecnico-logistico, oltre che dai costi elevati, e che “riporterebbe l’Italia nella stessa situazione dei respingimenti del 2009”, per i quali il nostro Paese è stato condannato della Corte di Strasburgo. A dirlo all’Adnkronos è Fabio Caffio, ammiraglio in congedo e tra i massimi esperti di diritto internazionale marittimo, che sottolinea come, “in assenza di accordi con i Paesi costieri africani, una interdizione navale come quella proposta da Maroni comporterebbe una violazione della convenzione di Ginevra”. D’altronde, spiega Caffio, “basterebbe non avere la memoria corta e guardare al passato recente per capirlo. Nel 2009, quando proprio Maroni era ministro dell’Interno, l’Italia, grazie ai rapporti stretti con Gheddafi, firmò un accordo di cooperazione che prevedeva i respingimenti”, con i libici che, oltre a pattugliare le loro acque territoriali, “si impegnavano a riprendere indietro i barconi intercettati in quelle internazionali”. In osservanza del diritto del mare che obbliga al soccorso, “i migranti venivano fatti salire sulle navi italiane, con l’intenzione però di riportarli indietro”. In quelle circostanze, “si dovette ricorrere, in alcuni casi, a forme di coercizione perché i migranti si ribellavano al ritorno in Libia”. Da quei frangenti, continua Caffio, “nacque il caso Hirsi Jamaa -uno dei migranti respinti nel maggio del 2009 che presentò ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo- che terminò poi con la condanna al nostro Paese, una vicenda che ha danneggiato gravemente la nostra immagine, facendoci apparire una sorta di ‘Stato canaglia’ che non rispetta i diritti umani”. Se fino al 2011 c’erano dei dubbi sull’applicabilità in alto mare, è quindi ormai chiaro che i respingimenti sono “in netto conflitto con la convenzione di Ginevra del ’51”, mentre i libici che potrebbero farlo nelle loro acque territoriali “non prendono una posizione in merito” e il mutato quadro politico, seguito alla morte di Gheddafi ha causato una sospensione di fatto degli accordi italo-libici. 

Le considerazioni di Caffio sono dell’11 giugno 2015. L’intervista di Graziano del 21 giugno dello stesso anno. Otto anni dopo, c’è chi c’insiste.

Scriveva, due anni fa, 2021, Stefano Vespa su formiche.it: “A parte la questione dell’impossibilità del blocco navale che si cerca di spiegare da anni, a quanto pare inutilmente, e la quasi impossibilità di cambiare regole d’ingaggio dall’oggi al domani per una missione il cui parto è stato molto doloroso, forse sfugge che sistemare navi militari di fronte alla Libia intensificherebbe le partenze perché i comandanti di quelle navi sarebbero costretti a salvare chi fosse a bordo di messi fatiscenti e a rischio naufragio. Con due effetti: aumenterebbe il numero di arrivi, anche se le persone sarebbero distribuite in più Stati e non solo in Italia, e la missione verrebbe bloccata proprio come prevedono le attuali regole d’ingaggio in caso diventasse un fattore d’attrazione per i trafficanti. Per essere credibile la coerenza di una linea politica dovrebbe calcolare anche gli effetti collaterali”.

Parlare di blocco navale, peraltro,  non può che riportare alla mente l’episodio della nave militare Sibilla: risale al 1997, 25 anni fa, ma è una ferita ancora aperta. Una corvetta della Marina causò inavvertitamente l’affondamento di un’imbarcazione albanese al largo della Puglia. I morti furono più di 100. C’era una direttiva del governo che imponeva un “blocco navale”. Il governo Prodi fu criticato dalle Nazioni Unite per aver attuato quello che de facto fu un blocco navale illegale, anche se per la precisione si trattava più propriamente di un’operazione di interdizione marittima (Mio). Nel Canale d’Otranto la Marina, su ordine del governo, applicò le procedure del cosiddetto harassment, ovvero mise in atto “azioni cinematiche di disturbo e di interdizione”. 

“Quisquilie”

Poi, ci sarebbe una “quisquilia” per la premier sovranista-europeista: lo statuto delle Nazioni Unite. Il blocco navale è disciplinato dall’articolo 42 dello statuto delle Nazioni Unite ed è un’azione militare finalizzata a impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un Paese o di un territorio. Esso non è consentito al di fuori dei casi di legittima difesa. Inoltre “Il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato” è definito come un vero e proprio atto di aggressione, anche in assenza di dichiarazione di guerra, dall’art. 3, lettera C) della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974. I criteri per attuarlo sono stabiliti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e 1977 sui conflitti armati via mare.  
1)Prima di attuare il blocco navale la forza militare che lo attua deve comunicare alle nazioni terze non belligeranti la definizione geografica della zona soggetta al blocco stesso; 2) il blocco navale deve essere imparziale nei confronti delle nazioni non belligeranti; 3) una volta attuato consente la possibilità di catturare qualsiasi imbarcazione mercantile che violi il blocco e il suo deferimento a un apposito tribunale delle prede; 4) consente, altresì, la possibilità di attaccare qualsiasi imbarcazione mercantile nemica che opponga resistenza al blocco navale; 5) l’obbligo da parte della forza militare che attua il blocco di permettere il passaggio di carichi contenenti beni di prima necessità e medicinali per la popolazione locale. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina.

Così stanno le cose. Ed è sconsolante doverci tornare su perché una presidente del Consiglio ritira fuori la scempiaggine del blocco navale. 

Ma questa scempiaggine non è isolata. Si accompagna, infatti, ad altre improvvide uscite di esponenti di primo piano del governo Meloni: da Tajani a Piantedosi, da Salvini a Urso. I migranti come arma di una “guerra ibrida” scatenata da Putin attraverso i mercenari della Wagner contro l’Italia. E ancora: le Ong come pull factor. O lo scaricare responsabilità per il naufragio di Cutro a Frontex. O vagheggiare un improbabile “Piano Africa”. Un combinato disposto che dà conto di un’assoluta mancanza di visione e strategia sul Mediterraneo che sia altro dal sostegno a improponibili “gendarmi” della sponda Sud perché facciano il lavoro sporco – i respingimenti in mare – al posto nostro. In Europa contiamo poco. In Libia, praticamente nulla. Ma questa è una realtà di fatto che confligge con la narrazione enfatica e farlocca di una stampa mainstream che spaccia per verità le veline di palazzo (Chigi). 

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