Migranti: Giorgia Meloni e il cardinale Zuppi, ossia la crudeltà e l'umanesimo
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Migranti: Giorgia Meloni e il cardinale Zuppi, ossia la crudeltà e l'umanesimo

Alla crudeltà semantica che porta Meloni a definire sprezzantemente le navi salvavita delle Ong “traghetti”, si aggiungono le sentenze emesse dalla presidente del Consiglio con dichiarazioni e pronunciamenti mediatici.

Migranti: Giorgia Meloni e il cardinale Zuppi, ossia  la crudeltà e l'umanesimo
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6 Febbraio 2023 - 12.46


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Un’ossessione. Con evidenti tornaconti elettorali. Come altro definire il martellante, ossessivo per l’appunto, attacco alle navi Ong condotto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Alla crudeltà semantica, di cui Globalist ha scritto, che porta Meloni a definire sprezzantemente le navi salvavita delle Ong, come la Geo Barents, “traghetti”, si aggiungono, con cadenza pressoché quotidiana, le sentenze emesse dalla presidente del Consiglio con dichiarazioni e pronunciamenti mediatici.

L’ultima bordata

Ne scrive Annalisa Cangemi per fanpage.it: “Ancora un attacco alle navi delle organizzazioni umanitarie che salvano migranti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni rivendica le norme che sono state varate con il decreto Piantedosi, che ha modificato le regole per le navi da soccorso che operano nel Mediterraneo. “Abbiamo cercato di stabilire delle regole per le Ong, ma anche questo è stato contestato. Se la tua opera è di salvataggio, quando salvi qualcuno lo prendi e lo devi salvare immediatamente, se lo lasci su una nave per settimane finché la nave non è piena, quello non è salvataggio, è traghetto”, ha detto ieri la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, parlando alla kermesse del centrodestra a sostegno di Francesco Rocca per le elezioni regionali nel Lazio, presso l’Auditorium Conciliazione.

Il riferimento è ancora alla volta alle nuove norme che sono state varate dal governo con il primo provvedimento del 2023, il l decreto legge 2 gennaio 2023 numero 1, che impone alle navi di chiedere l’assegnazione del porto di sbarco subito dopo aver effettuato un salvataggio, e di raggiungere poi il porto di sbarco assegnato dalle autorità competenti senza ritardi per il completamento dell’intervento di soccorso. In questo modo il governo cerca di impedire alla nave che ha già effettuato un primo soccorso di raccogliere a bordo altri naufraghi, con nuovi interventi. Ma queste norme sono in contrasto con il diritto internazionale, come ha fatto notare anche il Consiglio d’Europa, che ha chiesto al ministro dell’Interno Piantedosi di ritirare il decreto o di modificarlo, perché le norme “potrebbero ostacolare le operazione di ricerca e soccorso delle Ong e quindi essere in contrasto con gli obblighi dell’Italia ai sensi dei diritti umani e del diritto internazionale”.

“Se le Ong fanno il gioco degli scafisti si devono perseguire, ma se io salvo qualcuno non faccio il gioco degli scafisti, faccio il gioco di quello che sta in mezzo al mare. Anche ieri sono morte dieci persone, tra cui un neonato. Questo non può non suscitare una reazione e quindi qualcuno dice ‘io vado a salvarli’. È sbagliato questo? Assolutamente no. Non si sta bene in mezzo al mare, vuol dire che chi sta lì è disperato e che forse vale la pena che l’umanesimo, l’attenzione per l’uomo e per l’individuo, porti a dire ‘aiutiamoli’ e credo per questo che le Ong facciano bene”, ha detto oggi il presidente della Cei, Cardinale Matteo Zuppi, intervistato da Mezz’ora in più, il programma di Lucia Annunziata.

Disumano e fuorilegge

Di grande interesse è il report di Elenora Camilli per Redattore Sociale. Scrive tra l’altro Camilli: “Non è la Geo Barents a sfidare il decreto legge Piantedosi, come dicono oggi in molti. E’ il governo italiano, che sta sfidando l’Europa e il diritto internazionale” sottolinea Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, esperto di immigrazione, asilo e diritto del mare. “Il decreto n. 1 del 2 gennaio 2023 fornisce innanzitutto una lettura distorta dell’articolo 19 della convenzione di Montego Bay (Unclos, ndr) sul passaggio inoffensivo, consentendo il divieto di ingresso nei porti delle navi che violano le norme relative all’immigrazione. Un principio già previsto dal decreto Salvini e mai rimosso dal decreto Lamorgese, il n. 130 del 2020 – spiega -.  Il dl, nel confermare questo potere di divieto che i giudici hanno disapplicato, per esempio nella sentenza sul caso di Carola Rackete, viola il principio della gerarchia delle fonti. Nei fatti, se guardiamo al diritto del mare e alle convenzioni internazionali, si parla di libertà di navigazione e non c’è una norma che vieta i soccorsi multipli. Anzi l’articolo 98 della Convenzione Unclos dice espressamente che se il comandante è informato di un’imbarcazione in distress è obbligato al soccorso. Altrimenti potrebbe configurarsi il reato di omissione di soccorso”. Per Vassallo Paleologo, dunque, non è possibile prevedere una norma interna che impedisca le attività di soccorso in mare, a cui sono obbligati non solo i comandanti delle navi ma anche gli Stati. 

“Le convenzioni internazionali hanno natura vincolante e obbligatoria anche in forza del regolamento europeo 656 del 2014 relativo alle attività di Frontex, che disciplina e impone il rispetto di tali convenzioni – ricorda il giurista -. I regolamenti europei hanno valore cogente e l’efficace normativa è diretta, non possono esserci interpretazioni”.  

A suscitare polemiche è anche la prassi, ormai consolidata, di assegnare alle navi umanitarie delle Ong porti di sbarco sempre più lontani dal luogo dove è avvenuto il salvataggio. “Dopo il salvataggio effettuato oggi, le autorità italiane ci hanno assegnato La Spezia come porto di sbarco. Questa città si trova a circa 100 ore di navigazione dalla nostra posizione attuale – sottolinea Medici senza frontiere -. Perché farli sbarcare così lontano quando ci sono porti idonei molto più vicini? Perché non Pozzallo o Palermo? È contro il diritto marittimo internazionale”. In un post l’ong ricorda che “il place of safety dovrebbe essere assegnato ‘con la minima deviazione dal viaggio della nave’ e dovrebbe essere fatto ogni sforzo ‘per ridurre al minimo il tempo delle persone soccorse, rimanere a bordo della nave che presta assistenza’, ovvero il prima possibile”. 

Secondo Vassallo Paleologo questa prassi governativa è non solo illegittima manche contraddittoria: “da una parte il decreto dice che le navi devono raggiungere il porto nel tempo più rapido possibile per completare il soccorso, dall’altra il Governo le invia in porti lontanissimi, comportando tempi di navigazione molto lunghi”. Inoltre, seppure non esplicitato nella convenzione Sar di Amburgo del 1979 “viene adombrata l’idea che il porto sicuro è anche il più vicino. In particolare, l’annesso alla convenzione Sar al punto 3.1.9 stabilisce che il comandante della nave riceva l”indicazione del place of safety e che lo sbarco, evidentemente non in Libia, avvenga nel più breve tempo ragionevolmente possibile- spiega il giurista -. La diatriba è sulla natura non occasionale del soccorso che serve nei fatti a discriminare le navi delle Ong. Nell’interpretazione del Viminale la rotta di queste navi non è predefinita e dunque non ci sarebbe deviazione. Ma è un’interpretazione che serve solo a disapplicare le norme internazionali, perché non si possono fare discriminazioni tra i naufraghi. Solo le navi delle Ong vengono inviate così lontano, lo stesso non succede con le navi della Guardia costiera”.  

Leggi anche:  Giorgia Meloni, gli studenti e la criminalizzazione del dissenso

In queste ore sta arrivando a Medici senza frontiere anche la solidarietà delle altre organizzazioni umanitarie. “Il Governo italiano continua a violare il diritto internazionale e i diritti umani delle persone soccorse in mare: i 237 naufraghi a bordo di Geo Barents di Medici Senza Frontiere toccheranno terra al porto di La Spezia, tra i più lontani mai concessi – afferma l’ong Sea Watch -. Dopo giorni nel Mediterraneo, le autorità italiane costringono le persone ad altre decine e decine di ore di viaggio, in mare, con il rischio di peggioramenti meteorologici e l’unico vile obiettivo di infliggere altre sofferenze, tenendo le navi delle Ong lontane dalle zone SAR. Il risultato? Un Mediterraneo sempre più deserto e senza soccorsi, con più respingimenti e morti”.

Tunisia, la protesta della società civile

Uno sguardo agli accadimenti nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Esponenti della società civile tunisina si sono radunati davanti al Teatro municipale di Tunisi, per chiedere alle autorità la verità sulla scomparsa di giovani migranti irregolari, esortando lo Stato a mettere in atto politiche più umane per affrontare la migrazione irregolare. Alla manifestazione hanno partecipato il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) e il Coordinamento delle famiglie degli scomparsi in Italia, oltre ai genitori dei giovani tunisini che non sono più in contatto con le loro famiglie dopo aver attraversato i confini via mare per raggiungere la sponda settentrionale del Mediterraneo. Il portavoce dell’Ftdes, Romdhane Ben Amor, ha denunciato le misure restrittive di alcuni Paesi per frenare tutti i tentativi di migrazione irregolare, affermando che la Tunisia l’anno scorso ha visto un numero record di migranti scomparsi (580) a causa delle politiche dell’Unione Europea.  Secondo Ben Amor la Tunisia ha collaborato al rimpatrio di 38 mila migranti irregolari, per questo il Forum invita a rivedere le politiche restrittive che minano il diritto di movimento. Ben Amor ha anche accusato il presidente della Repubblica Kais Saied per la sua versione fornita a proposito della “tragedia di Zarzis” di fine settembre scorso, sottolineando che gli abitanti di Zarzis sono consapevoli che i funzionari della sicurezza locali sono coinvolti nella tragedia dei migranti scomparsi per il fatto di aver proceduto ala sepoltura dei corpi all’insaputa delle loro famiglie. Per Ben Amor, Saied non ha fornito dettagli per conoscere la verità. 

Urne deserte

Sono quelle tunisine. Annota Amedeo Lascaris su Tempi: “Il nuovo percorso istituzionale avviato dal presidente della Repubblica, Kais Saied, il 25 luglio del 2021 per strappare la Tunisia agli interessi dei partiti sorti dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011 appare giunto il capolinea. Al pari del primo turno del 17 dicembre scorso, 

 anche il secondo turno delle elezioni legislative del 29 gennaio è stato caratterizzato da una massiccia astensione, pari all’89 per cento dell’elettorato, con il tasso di affluenza che si è fermato all’11,2 per cento.

«La gente in Tunisia non crede più nelle istituzioni»

A nulla è servita la campagna di sensibilizzazione sul voto durante le fasi intermedie, né i dibattiti televisivi tra i candidati, né gli sms di incitamento inviati ogni giorno agli elettori. «Questa forte astensione era attesa e dimostra un totale disinteresse dei cittadini per il processo avviato dal presidente», dichiara a TempiSarah Ben Hammadi, blogger e nota influencer tunisina, che esprime la frustrazione della popolazione per la situazione nel paese e le basse aspettative nei confronti della nuova assemblea legislativa voluta da Saied.

«È una totale perdita di fiducia nelle istituzioni, ed è un peccato. Non possiamo continuare su questa strada, né politicamente né moralmente», osserva. «Allo stesso tempo, l’uscita dalla crisi non sarà possibile con figure che hanno governato per un decennio e che hanno largamente contribuito al deterioramento economico e politico della situazione. C’è un rifiuto totale della classe politica che ha governato dopo il 2011, e tutto il sostegno al presidente, anche se si sta indebolendo nel tempo, è dovuto proprio a questo», sottolinea Sarah Ben Hammadi”.

Non di soli gelsomini

Alla luce della crisi politica e istituzionale che scuote la Tunisia, acquista una valenza “profetica” quanto ebbe a dire a Globalist . Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo: Quello compiuto in questi dieci anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. 

Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15% (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore .

Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese,  che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale. 

Leggi anche:  E se il Natale ci portasse in dono le elezioni anticipate?

La Tunisia in crisi racconta una verità universale: senza giustizia sociale pace e stabilità sono una illusione. E la fuga dei giovani sarà sempre più massiccia e inarrestabile. 

quotidiana, le sentenze emesse dalla presidente del Consiglio con dichiarazioni e pronunciamenti mediatici.

L’ultima bordata

Ne scrive Annalisa Cangemi per fanpage.it: “Ancora un attacco alle navi delle organizzazioni umanitarie che salvano migranti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni rivendica le norme che sono state varate con il decreto Piantedosi, che ha modificato le regole per le navi da soccorso che operano nel Mediterraneo. “Abbiamo cercato di stabilire delle regole per le Ong, ma anche questo è stato contestato. Se la tua opera è di salvataggio, quando salvi qualcuno lo prendi e lo devi salvare immediatamente, se lo lasci su una nave per settimane finché la nave non è piena, quello non è salvataggio, è traghetto”, ha detto ieri la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, parlando alla kermesse del centrodestra a sostegno di Francesco Rocca per le elezioni regionali nel Lazio, presso l’Auditorium Conciliazione.

Il riferimento è ancora alla volta alle nuove norme che sono state varate dal governo con il primo provvedimento del 2023, il l decreto legge 2 gennaio 2023 numero 1, che impone alle navi di chiedere l’assegnazione del porto di sbarco subito dopo aver effettuato un salvataggio, e di raggiungere poi il porto di sbarco assegnato dalle autorità competenti senza ritardi per il completamento dell’intervento di soccorso. In questo modo il governo cerca di impedire alla nave che ha già effettuato un primo soccorso di raccogliere a bordo altri naufraghi, con nuovi interventi. Ma queste norme sono in contrasto con il diritto internazionale, come ha fatto notare anche il Consiglio d’Europa, che ha chiesto al ministro dell’Interno Piantedosi di ritirare il decreto o di modificarlo, perché le norme “potrebbero ostacolare le operazione di ricerca e soccorso delle Ong e quindi essere in contrasto con gli obblighi dell’Italia ai sensi dei diritti umani e del diritto internazionale”.

“Se le Ong fanno il gioco degli scafisti si devono perseguire, ma se io salvo qualcuno non faccio il gioco degli scafisti, faccio il gioco di quello che sta in mezzo al mare. Anche ieri sono morte dieci persone, tra cui un neonato. Questo non può non suscitare una reazione e quindi qualcuno dice ‘io vado a salvarli’. È sbagliato questo? Assolutamente no. Non si sta bene in mezzo al mare, vuol dire che chi sta lì è disperato e che forse vale la pena che l’umanesimo, l’attenzione per l’uomo e per l’individuo, porti a dire ‘aiutiamoli’ e credo per questo che le Ong facciano bene”, ha detto oggi il presidente della Cei, Cardinale Matteo Zuppi, intervistato da Mezz’ora in più, il programma di Lucia Annunziata.

Disumano e fuorilegge

Di grande interesse è il report di Elenora Camilli per Redattore Sociale. Scrive tra l’altro Camilli: “Non è la Geo Barents a sfidare il decreto legge Piantedosi, come dicono oggi in molti. E’ il governo italiano, che sta sfidando l’Europa e il diritto internazionale” sottolinea Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, esperto di immigrazione, asilo e diritto del mare. “Il decreto n. 1 del 2 gennaio 2023 fornisce innanzitutto una lettura distorta dell’articolo 19 della convenzione di Montego Bay (Unclos, ndr) sul passaggio inoffensivo, consentendo il divieto di ingresso nei porti delle navi che violano le norme relative all’immigrazione. Un principio già previsto dal decreto Salvini e mai rimosso dal decreto Lamorgese, il n. 130 del 2020 – spiega -.  Il dl, nel confermare questo potere di divieto che i giudici hanno disapplicato, per esempio nella sentenza sul caso di Carola Rackete, viola il principio della gerarchia delle fonti. Nei fatti, se guardiamo al diritto del mare e alle convenzioni internazionali, si parla di libertà di navigazione e non c’è una norma che vieta i soccorsi multipli. Anzi l’articolo 98 della Convenzione Unclos dice espressamente che se il comandante è informato di un’imbarcazione in distress è obbligato al soccorso. Altrimenti potrebbe configurarsi il reato di omissione di soccorso”. Per Vassallo Paleologo, dunque, non è possibile prevedere una norma interna che impedisca le attività di soccorso in mare, a cui sono obbligati non solo i comandanti delle navi ma anche gli Stati. 

“Le convenzioni internazionali hanno natura vincolante e obbligatoria anche in forza del regolamento europeo 656 del 2014 relativo alle attività di Frontex, che disciplina e impone il rispetto di tali convenzioni – ricorda il giurista -. I regolamenti europei hanno valore cogente e l’efficace normativa è diretta, non possono esserci interpretazioni”.  

A suscitare polemiche è anche la prassi, ormai consolidata, di assegnare alle navi umanitarie delle Ong porti di sbarco sempre più lontani dal luogo dove è avvenuto il salvataggio. “Dopo il salvataggio effettuato oggi, le autorità italiane ci hanno assegnato La Spezia come porto di sbarco. Questa città si trova a circa 100 ore di navigazione dalla nostra posizione attuale – sottolinea Medici senza frontiere -. Perché farli sbarcare così lontano quando ci sono porti idonei molto più vicini? Perché non Pozzallo o Palermo? È contro il diritto marittimo internazionale”. In un post l’ong ricorda che “il place of safety dovrebbe essere assegnato ‘con la minima deviazione dal viaggio della nave’ e dovrebbe essere fatto ogni sforzo ‘per ridurre al minimo il tempo delle persone soccorse, rimanere a bordo della nave che presta assistenza’, ovvero il prima possibile”. 

Secondo Vassallo Paleologo questa prassi governativa è non solo illegittima manche contraddittoria: “da una parte il decreto dice che le navi devono raggiungere il porto nel tempo più rapido possibile per completare il soccorso, dall’altra il Governo le invia in porti lontanissimi, comportando tempi di navigazione molto lunghi”. Inoltre, seppure non esplicitato nella convenzione Sar di Amburgo del 1979 “viene adombrata l’idea che il porto sicuro è anche il più vicino. In particolare, l’annesso alla convenzione Sar al punto 3.1.9 stabilisce che il comandante della nave riceva l”indicazione del place of safety e che lo sbarco, evidentemente non in Libia, avvenga nel più breve tempo ragionevolmente possibile- spiega il giurista -. La diatriba è sulla natura non occasionale del soccorso che serve nei fatti a discriminare le navi delle Ong. Nell’interpretazione del Viminale la rotta di queste navi non è predefinita e dunque non ci sarebbe deviazione. Ma è un’interpretazione che serve solo a disapplicare le norme internazionali, perché non si possono fare discriminazioni tra i naufraghi. Solo le navi delle Ong vengono inviate così lontano, lo stesso non succede con le navi della Guardia costiera”.  

Leggi anche:  Arresto di Netanyahu, il governo filo-Bibi va in confusione (e una parte del Pd pure)

In queste ore sta arrivando a Medici senza frontiere anche la solidarietà delle altre organizzazioni umanitarie. “Il Governo italiano continua a violare il diritto internazionale e i diritti umani delle persone soccorse in mare: i 237 naufraghi a bordo di Geo Barents di Medici Senza Frontiere toccheranno terra al porto di La Spezia, tra i più lontani mai concessi – afferma l’ong Sea Watch -. Dopo giorni nel Mediterraneo, le autorità italiane costringono le persone ad altre decine e decine di ore di viaggio, in mare, con il rischio di peggioramenti meteorologici e l’unico vile obiettivo di infliggere altre sofferenze, tenendo le navi delle Ong lontane dalle zone SAR. Il risultato? Un Mediterraneo sempre più deserto e senza soccorsi, con più respingimenti e morti”.

Tunisia, la protesta della società civile

Uno sguardo agli accadimenti nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Esponenti della società civile tunisina si sono radunati davanti al Teatro municipale di Tunisi, per chiedere alle autorità la verità sulla scomparsa di giovani migranti irregolari, esortando lo Stato a mettere in atto politiche più umane per affrontare la migrazione irregolare. Alla manifestazione hanno partecipato il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) e il Coordinamento delle famiglie degli scomparsi in Italia, oltre ai genitori dei giovani tunisini che non sono più in contatto con le loro famiglie dopo aver attraversato i confini via mare per raggiungere la sponda settentrionale del Mediterraneo. Il portavoce dell’Ftdes, Romdhane Ben Amor, ha denunciato le misure restrittive di alcuni Paesi per frenare tutti i tentativi di migrazione irregolare, affermando che la Tunisia l’anno scorso ha visto un numero record di migranti scomparsi (580) a causa delle politiche dell’Unione Europea.  Secondo Ben Amor la Tunisia ha collaborato al rimpatrio di 38 mila migranti irregolari, per questo il Forum invita a rivedere le politiche restrittive che minano il diritto di movimento. Ben Amor ha anche accusato il presidente della Repubblica Kais Saied per la sua versione fornita a proposito della “tragedia di Zarzis” di fine settembre scorso, sottolineando che gli abitanti di Zarzis sono consapevoli che i funzionari della sicurezza locali sono coinvolti nella tragedia dei migranti scomparsi per il fatto di aver proceduto ala sepoltura dei corpi all’insaputa delle loro famiglie. Per Ben Amor, Saied non ha fornito dettagli per conoscere la verità. 

Urne deserte

Sono quelle tunisine. Annota Amedeo Lascaris su Tempi: “Il nuovo percorso istituzionale avviato dal presidente della Repubblica, Kais Saied, il 25 luglio del 2021 per strappare la Tunisia agli interessi dei partiti sorti dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011 appare giunto il capolinea. Al pari del primo turno del 17 dicembre scorso, 

 anche il secondo turno delle elezioni legislative del 29 gennaio è stato caratterizzato da una massiccia astensione, pari all’89 per cento dell’elettorato, con il tasso di affluenza che si è fermato all’11,2 per cento.

«La gente in Tunisia non crede più nelle istituzioni»

A nulla è servita la campagna di sensibilizzazione sul voto durante le fasi intermedie, né i dibattiti televisivi tra i candidati, né gli sms di incitamento inviati ogni giorno agli elettori. «Questa forte astensione era attesa e dimostra un totale disinteresse dei cittadini per il processo avviato dal presidente», dichiara a TempiSarah Ben Hammadi, blogger e nota influencer tunisina, che esprime la frustrazione della popolazione per la situazione nel paese e le basse aspettative nei confronti della nuova assemblea legislativa voluta da Saied.

«È una totale perdita di fiducia nelle istituzioni, ed è un peccato. Non possiamo continuare su questa strada, né politicamente né moralmente», osserva. «Allo stesso tempo, l’uscita dalla crisi non sarà possibile con figure che hanno governato per un decennio e che hanno largamente contribuito al deterioramento economico e politico della situazione. C’è un rifiuto totale della classe politica che ha governato dopo il 2011, e tutto il sostegno al presidente, anche se si sta indebolendo nel tempo, è dovuto proprio a questo», sottolinea Sarah Ben Hammadi”.

Non di soli gelsomini

Alla luce della crisi politica e istituzionale che scuote la Tunisia, acquista una valenza “profetica” quanto ebbe a dire a Globalist . Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo: Quello compiuto in questi dieci anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. 

Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15% (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore .

Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese,  che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale. 

La Tunisia in crisi racconta una verità universale: senza giustizia sociale pace e stabilità sono una illusione. E la fuga dei giovani sarà sempre più massiccia e inarrestabile. 

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