Abitando a Bologna, nei giorni scorsi sono andato diverse volte alla festa provinciale dell’unità per sentire l’aria che tira nel popolo del Pd. La festa negli ultimi anni si è progressivamente ridotta, ma rimane comunque una delle più grandi e partecipate d’Italia. Probabilmente la più grande in assoluto. Quest’anno ha dovuto fare i conti anche con l’ostruzionismo dei fasci.
Un parlamentare di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, quello che festeggiò l’addio al celibato vestito da nazista, ha presentato un esposto in prefettura per silenziare la festa, sostenendo che svolgendosi in un’area pubblica (il Parco Nord) doveva essere soggetta alle restrizioni della par condicio, senza comizi e simboli di partito. Subito Prefettura e Pd si erano incartati in una sorta di manuale su cosa si poteva e non si poteva fare, pareva addirittura che si potesse parlare di politica solo giù dal palco, poi ha prevalso il buon senso ed è finito tutto a tarallucci e vino: con le bandiere del Pd sostituite da quelle della pace, le iniziative politiche svolte regolarmente, con qualche attenzione formale in più sulla propaganda tipo nessun santino dei candidati o fac-simile delle schede elettorali.
I volontari sono di meno, qualcuno – come cantava Guccini – “è andato per età”, diversi altri per dissenso politico e calo di passione. Quelli che son rimasti, in maggioranza diversamente giovani, colpiscono comunque per il loro attaccamento al partito e per la loro generosità. I ristoranti sono più o meno gli stessi anche se fanno turni di chiusura più lunghi.
Sono scomparsi i concerti, gran parte degli espositori, la tensostruttura con l’area commerciale che veniva allestita al centro della festa. Viali, bar, crescentinerie, piadinerie e ristoranti sono comunque quasi sempre affollati. Più di tutte la Red Square, gestita dalla comunità Lgbt, dove va per la maggiore il “drag queen sisters show”. Insomma, di gente continua a girarne parecchia, dappertutto tranne che negli spazi dedicati alla politica. L’arena centrale, intitolata a David Sassoli, è stata ridotta a 170 posti che comunque fatica a riempire. Idem le altre sale dibattiti, che pure sono minuscole. Per non parlare dello stand del Pd quasi sempre desolatamente vuoto.
Mi hanno colpito alcune cose. Il giorno dell’inaugurazione, col segretario Letta, c’erano si e no duecento persone e un entusiasmo non propriamente travolgente. L’altra sera, a un dibattito con la capogruppo alla Camera, Debora Serracchiani, c’erano trentadue persone, 32, compresa la dirigenza. Ve lo immaginate ai tempi di Berlinguer, della Jotti o di Zangheri?
Paradossalmente, chi riesce ancora a fare il pieno e a scaldare i cuori è il segretario che non c’è più: Pierluigi Bersani, che com’è noto ora sta in un altro partito. Lunedì sera, a un dibattito con l’ex sindaco Virginio Merola, candidato alla Camera, la sala l’ha accolto con un calore tale e con un super-applauso che avevano il sapore non solo della stima e dell’affetto personale che lo circonda, ma della nostalgia politica. Nostalgia del “suo” Pd. Nostalgia dell’Ulivo. Nostalgia di una sinistra che cerca di “legare anche la sabbia” per unire. Un abbraccio collettivo che a me è parso quasi una esortazione a ritornare per provare a ricostruire un Pd che assomigli un po’ di più a lui, al Bersa, e che sappia rilanciare il campo largo progressista che si è sfaldato con la caduta del governo Draghi.
La rottura con Conte, in particolare, ha aperto un’autostrada alla vittoria della destra. A meno di imprevedibili stravolgimenti dell’ultima ora, il 26 settembre ci ritroveremo un Parlamento con la maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato alla coalizione Meloni, Salvini Berlusconi. I sondaggi, tutti i sondaggi, lasciano pochi dubbi sull’esito elettorale. L’unica incognita riguarda l’entità del successo: vincerà soltanto o stravincerà ottenendo i due terzi dei seggi e quindi la possibilità di cambiare la Costituzione (Repubblica Presidenziale e altro) senza dover passare per la conferma referendaria che nel 2016 segnò la sconfitta di Renzi. Il popolo della festa lo sa. I volontari lo sanno. Cercano di rincuorarsi quando Letta, gli altri dirigenti e candidati dicono “possiamo vincere”, ma sono rassegnati a perdere. E anche un po’ incazzati per le scelte che sono state fatte, dalla guerra, all’abbandono del campo largo, alla ricandidatura di Casini a Bologna. E pensano che dopo, dal 26, ci sarà molto da ricostruire.