Sono figlia di iscritti al Pci. Passati al Pds poi ai Ds. Tra i primissimi cittadini militanti ad aver condannato l’Unione sovietica e il suo terribile totalitarismo. Ad aver dunque sposato con un sospiro di sollievo la svolta di Occhetto.
Sono cresciuta in una famiglia in cui si parlava di politica sempre. Si guardavano programmi politici e si leggeva di politica. Dove si litigava (molto) per la politica, nonostante fossimo tutti dalla stessa parte.
Perché la politica, mi è stato insegnato, non sono i politici. Ma le scelte che ognuno di noi decide di mettere in pratica o no, nella propria vita quotidiana.
Sono diventata grande con il Partito democratico. Avevo 21 anni quando è stato fondato.
Sono una sua nativa. Ho contribuito in Sardegna alla formazione dei Giovani democratici.
Alle ultime Regionali ho accettato la richiesta di Massimo Zedda a candidarmi nella lista del candidato presidente per aiutare la coalizione.
Ho partecipato a riunioni sin da ragazzina. Convegni, dibattiti, campagne elettorali.
Via Emilia è stata il mio oratorio laico. Il luogo dove ho imparato a parlare in pubblico, a controbattere, a non farmi dire cosa dovessi pensare.
Ho semplicemente fatto quello che dovrebbe fare ogni cittadina e cittadino. Occuparsi della cosa pubblica. Essere attiva nella società. Tutto da volontaria.
La politica per me non è un lavoro. Ma un imprescindibile impegno civico che qualunque persona dovrebbe svolgere.
Il mio lavoro è un altro, lo sapete.
Faccio la giornalista e contemporaneamente resto salda ai miei principi e valori e li porto dentro la mia professione.
In che modo?
Per esempio scegliendo di raccontare la realtà con una voce socialista.
Che bella parola meravigliosa tutta da riscoprire.
Mi schiero, sì. Dalla parte delle lotte femministe, dalla parte della comunità LGBTQ+, dalla parte di chi è stato costretto a immigrare ma anche a emigrare. Dalla parte dei precari, delle partite Iva, dei giovani. Del pianeta che soffre per scelte (politiche) criminali.
Dalla parte dei lavoratori.
Io, che qualche occupazione di fabbrica l’ho vissuta e raccontata nel mio primo libro.
In pratica, mi batto (nel mio piccolissimo) per una società più giusta e fondata non sull’uguaglianza ma sulle pari opportunità.
Lo faccio fuori e dentro un partito.
Non mi lamento e basta. Agisco. Mi prendo le mie responsabilità e critico come chiunque a sinistra.
Perché noi abbiamo spirito critico. Noi litighiamo perché siamo democratici. Perché non amiamo il pensiero unico.
Noi non siamo un partito personale. Noi abbiamo tanti leader. I primi sono i sindaci sparsi per il Paese.
Noi siamo pieni di difetti. Ma io, questi difetti, voglio cambiarli per migliorare il partito che ho sempre votato dal 2007. Quando avevo 21 anni ed ero abbastanza matura per non andarmene in giro ‘vestita’ da comunista perché il comunismo (nel mondo, non in Italia certo) come il fascismo ha prodotto morte. Cancellato il pensiero. Tappato le bocche. La politica non è una moda. Ma una cosa seria. Una presa di responsabilità del proprio pensiero.
Io non uso il mio diritto-dovere di votare per protestare, una volta ogni 5 anni, contro la politica come fosse un monolite fatto di persone e idee uguali. Io, ogni giorno, anche raccontando la realtà e chi non si arrende alle brutture, costruisco un pezzetto del partito che vorrei.
Non mi accontento. Non lo seguo in tutto ma non mi arrendo e scappo come fanno in molti. Resto e dico la mia.
La democrazia è questa. Una cosa difficile, lenta e macchinosa. Fatta di litigi e decisioni prese insieme dopo tante riunioni fiume, pochi applausi e molti vaffa.
Voterò PD, con tutte le riserve che una Democratica può avere per natura, anche questa volta.
Non ho nessuna intenzione di contribuire col mio voto (buttato) alla deriva reazionaria del mio Paese.