“Ricordi sbocciavano le viole Con le nostre parole Non ci lasceremo mai Mai e poi mai…”.
Belli i tempi dell’amore intenso e bruciante, come cantava Fabrizio De Andre.
Ed ora che tutto è un po’ appassito fa impressione ascoltare le parole di Dario Franceschini da Cortona (a proposito vi ricordate quando Letta decretò la morte delle correnti? Zingaretti pare se ne sia ricordato!) sulla probabile fine dell’alleanza con il M5S.
Eh si proprio lui, Dario Franceschini, lo stesso che dal 2018, con i risultati elettorali acquisiti, iniziò l’interlocuzione con l’appena eletto presidente della Camera. Eh si, era proprio Roberto Fico, nei desiderata del grande tessitore di Ferrara, l’antesignano della maggioranza giallorossa.
All’inizio della legislatura, come è noto, il movimento di Grillo preferì poi fare un accordo con il capitano della Lega, e Franceschini fare un passo indietro.
Poco più di un anno dopo, però si ripresentò l’occasione da non perdere. Con chi parlarono gli emissari di Conte e di Di Maio all’indomani del Papeete? E chi fu il primo a raccogliere la ‘provocazione’ di Matteo Renzi, sempre nell’infuocata estate del 2019?
Sempre lui, naturalmente, Dario Franceschini, l’uomo che riuscì a convincere un recalcitrante Zingaretti, che da segretario del Pd, si era convinto ad ‘andare al massacro’, pur di respingere le avance contemporanee di Conte e di Renzi.
Sembra passata, un’era politica, ma in quell’estate, fu Luigi Di Maio a dichiarare che per il M5S c’era un solo candidato possibile (mentre nel Pd si preferiva di gran lunga lo stesso Di Maio) ed a spingere in quella direzione furono soprattutto Matteo Renzi e Dario Franceschini. Così Conte tornó a Palazzo Chigi, riuscendo in un’impresa che non era mai riuscita a nessuno prima, essere Presidente del Consiglio con due diverse maggioranze, fortemente alternative una all’altra.
Con il governo giallorosso, da ministro della Cultura, il ‘ferrarese’ è stato il vero perno dell’amore sbocciato tra Pd e 5 Stelle, senza bisogno neanche di scivolare sul ‘fortissimo riferimento dei progressisti’, come ebbe a dire un emozionato ma non proprio accorto segretario del Pd.
Dario, da sempre, ama lavorare nell’ombra, diffida dei proclami, delle dichiarazioni altisonanti: il rapporto inossidabile con i 5 stelle andava coltivato senza clamori, e presentato alla fine del percorso come uno sbocco naturale. Nel mezzo, la terribile pandemia dove l’allora capo delegazione dem riuscì a stabilire un asse di ferro contro tutte le riaperture proprio con i 5 stelle e con il ministro della salute Speranza.
A riprova che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, lo sbocco naturale si è allontanato, e sono intervenute in gran numero le iatture.
Draghi in primis (un Presidente del Consiglio che Dario non ha mai amato, riecheggiano ancora le sue parole, alla vigilia del voto sul Quirinale, ‘mai super Mario al Colle’), la guerra in Ucraina, la progressiva marginalizzazione del M5S.
Certo non era difficile da capire, con gli occhi dell’oggi, che Giuseppi una volta disarcionato da Chigi, sarebbe andato progressivamente a spengersi, ma a Franceschini si può chiedere tutto sulla strategia e sulla tattica, un po’ meno sulla visione.
Che poi ad essere onesti, il solo Matteo Renzi, si era spinto nella previsione di un flop per Conte, mentre nel partitone, ancora si immaginava un futuro roseo per l’alleanza.
Poi sono arrivati, come un’agognata doccia fredda, le parole da Cortona. “L’amore che strappa i capelli È perduto ormai
Non resta che qualche svogliata carezza
E un po’ di tenerezza”.