Sui migranti il Pd non combatte ma asseconda le paure: come Orban

Il Pd ha rinunciato a fare politica. Se esiste una narrativa capace di far apparire la paura una buona consigliera, il Pd non sceglie di confrontarsi con quella paura e di dimostrare che è infondata

Svolta xenofoba di Orban
Svolta xenofoba di Orban
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

20 Luglio 2020 - 14.44


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Per capire la logica del pragmatismo politico basta pensare al caso dell’estenuante negoziato europeo alla luce del sostegno di Orbàn alla linea italiana. Come valutarlo? Che Orbàn non avesse a cuore la tutela del futuro degli italiani prendendosela con il premier olandese è chiaro. Il negoziato europeo vede da una parte la polemica olandese con chi vuole varare il cospicuo pacchetto di aiuti a fondo perduto e dall’altra con chi non vuole che ci siano vincoli europei per la tutela dello stato di diritto. Quando si fanno le pulci agli altri nascondendo qualche pulce magari fiscale è più carino fare i paladini dello stato di diritto. Resta però che Orbàn difendendo l’Italia difendeva se stesso. Il suo appoggio dunque comporterà uno scambio? Difficile non credere che questa sia l’intenzione del leader magiaro. Cosa vuol dire essere pragmatici? Vuol dire far buon viso a cattivo gioco e accettare lo scambio? Questo esempio indica la complessità di un negoziato a tante voci e anche la necessità di capire cosa possa significare la difesa dei propri principi quando sono in gioco i propri interessi. Si possono difendere i primi anche a costo di mettere in discussione i secondi?
Il ragionamento non è completo però se non si considera che è pendente un giudizio europeo sul caso ungherese. I termini del compromesso devono tenere conto di questo: per un politico democratico si può accettare di non considerare l’Ungheria in aperta violazione della stato di diritto ma fino a quando non giungerà una decisione del tribunale europeo competente che deve emettere un giudizio al termine del dibattimento in corso o si può prefigurare un’indifferenza per il tema anche quando il giudizio sarà emesso data l’importanza della posta in gioco?
Muoversi su questo sottile distinguo è l’unico esercizio possibile per il politico realista, democratico e in difficoltà. Nel primo caso troverà un compromesso tra interessi e principi, nel secondo sceglierà il cedimento. Cioè accerterà di difendere i propri interessi trascurando i propri principi. In questo caso dovrà considerare che forse la storia prenderà una piega diversa e la tendenza incarnata da Orbàn sarà sconfitta non da lui ma dalla storia appunto, ma dovrà anche considerare che forse la storia non prenderà un’altra piega e a essere sconfitto dalla storia non sarà Orbàn, ma lui stesso.
Diverso è il discorso del leader democratico che avverta che Orbàn interpreta un malessere diffuso, un’ansia profonda delle nostre società e che a quell’ansia bisogna rispondere e la sola risposta che incontra consenso è quella di Orbàn stesso. Giunto ad questa conclusione il politico democratico in difficoltà sceglierà di fare sua la politica di Orbàn, che esce dal tracciato democratico, perché è convinto che così facendo salverà apparentemente se stesso ma in realtà salverà la democrazia. Lui può scegliere una linea, un comportamento, un orientamento antidemocratico perché in cuor suo è democratico, mentre Orbàn no, lui in cuor suo non lo è. E’ questo il tipo di ragionamento che ha fatto il Pd in materia di immigrazione dai tempi in cui è stato ministro dell’interno Minniti. Il Pd ha considerato che c’era, c’è, ci sarebbe un’ansia profonda nelle nostre società davanti al tema immigrazione e che sfidare questa ansia, questa paura, avrebbe determinato la vittoria di forze politiche ritenute eversive. Il Pd no, non lo è, e per questo sposando una politica fatta di chiusura dei porti, protocolli per rendere difficoltoso il salvataggio in mare, accordi con le milizie libiche per ridurre gli sbarchi, avrebbe fatto una scelta che solo apparentemente tradiva i propri principi, ma in realtà li salvava, perché salvava o salverebbe il Paese da forze eversive.
Dunque il problema per il Pd non sarebbe quello che votando il rifinanziamento delle missioni in Libia tradirebbe i propri principi, ma che chi lo critica non capisce che lo fa per salvare quei principi, che in verità verrebbero traditi da un idealismo astratto, che consegnerebbe il Paese a forze eversive.
Tutto questo quanto meno vuol dire che il Pd ha rinunciato a fare politica. Se esiste una narrativa capace di far apparire la paura una buona consigliera, il Pd non sceglie di confrontarsi con quella paura, di dimostrare che è infondata, ma la asseconda convinto che solo così facendo si eviteranno guai peggiori. Le paure, soprattutto quelle profonde, non devono essere ignorate. Ma confrontate. E il buon governo a che serve? Unificare l’accoglienza nel sistema SPRAR non avrebbe ridotto le ruberie e dimostrato che i 30 euro al giorno non andavano ai “fannulloni immigrati” ma a chi li metteva a mangiare e dormire in strutture fatiscenti per fare incassi incredibili sulla loro pelle? Quanti sistemi di accoglienza, aiuto, integrazione, esistevano in Italia prima della cosiddetta “epoca Salvini”? A cosa serviva la riforma del sistema di valutazione della fondatezza della richiesta di asilo se non a rendere non appellabile il rigetto? E tenere i migranti per mesi e mesi a nulla fare nella piazza del Paese in attesa del rigetto della richiesta di asilo di persone che poi non si sarebbe saputo come espellere e che quindi sarebbero state gettate nell’illegalità, che finalità aveva?
Presumere che gli altri siano forze eversive è un atto di arroganza politica se non si dimostra con i fatti di sapere creare politica con proprie narrazioni e buona politica. Questo è il problema del Pd che nelle sue riunioni vota una risoluzione che lo impegna a opporsi al rifanziamento degli accordi libici e poi in aula fa l’esatto contrario. La politica ha bisogna di realismo, ma il realismo non è seguire il vento creato dai propri errori, ma correggerli. Altrimenti tutto diventerebbe possibile.

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