Primarie del Pd: vigilia tra veleni, insulti e lunghi coltelli
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Primarie del Pd: vigilia tra veleni, insulti e lunghi coltelli

In lizza Giachetti, Martina e Zingaretti. In ballo il futuro di un partito che ha perso il suo elettorato tradizionale e che è incerto sulla linea politica da seguire

Giachetti, Martina e Zingaretti
Giachetti, Martina e Zingaretti
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2 Marzo 2019 - 11.30


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Una campagna per le primarie deprimente. Nella quale non tanto i candidati quanto piuttosto i loro sostenitori si sono sbranati a vicenda e sui sociale (e non solo) se le sono dette di tutti i colori, tra insulti, caricature dell’avversario e accuse reciproche di mezzi sleali.
Un quadro che dimostra come la batosta elettorale del Partito democratico sia stata meritata e la necessità di voltare pagina e dalle macerie ricostruire magari qualcosa di diverso.
Il Pd prova ad aprire l’era del ‘dopo-Renzi’, domenica iscritti e sostenitori democratici andranno ai gazebo per scegliere il nuovo segretario e la prima sfida da vincere sarà quella della partecipazione. L’asticella è fissata a un milione, Nicola Zingaretti e buona parte dello storico gruppo dirigente sperano che non si scenda sotto questa soglia, già ampiamente più bassa del milione e ottocentomila votanti registrati all’ultimo congresso, quasi due anni fa. Matteo Renzi non è ufficialmente in campo, ha ostentato distacco dalla campagna congressuale e non ha detto per chi voterà, ma di fatto è su di lui che si vota: sulla scheda ci sono i nomi di Roberto Giachetti, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti, ma gli elettori Pd dovranno soprattutto decidere se archiviare il renzismo oppure no.
Non è un caso se il più preoccupato dalla partecipazione è proprio il presidente del Lazio, il candidato da molti considerato favorito. Zingaretti spera in un’affluenza con sei zeri, convinto che sotto la soglia del milione sarebbe più complicato svincolarsi dal condizionamento dei renziani, anche in caso di vittoria. Ma tutti, in casa democratica, sanno che la vera roulette russa saranno poi le europee di maggio, una vera puntata ‘all in’ per il partito nato poco più di undici anni fa.
Certo, già le primarie diranno molto sullo stato di salute del Pd. Sarà il primo test dopo i flebili segnali di esistenza in vita arrivati alle regionali in Abruzzo e Sardegna: nel 2007 alle primarie che incoronarono Walter Veltroni, primo segretario, ci furono 3,5 milioni di votanti e se domenica ci si fermasse a 600mila o 700mila elettori la delusione sarebbe forte.
Soprattutto, un segretario eletto con meno di un milione di voti sarebbe molto più debole. Un dettaglio non da poco visto che i renziani contano di avere comunque il 35-40% della futura assemblea nazionale, tra gli eletti con Martina e quelli che entreranno nella lista a sostegno di Giachetti. Di fatto con una bassa affluenza si rischia un segretario dimezzato.
Ma sarà fondamentale anche avere un segretario eletto direttamente nei gazebo, dal momento che lo statuto Pd prevede che se non si supera il 50% dei voti alle primarie tocca poi all’assemblea (convocata per il 17 marzo) indicare il nuovo segretario. Uno scenario del genere porterebbe a maggior ragione a un leader sotto tutela delle correnti.
Su Zingaretti convergono Paolo Gentiloni, Romano Prodi, Dario Franceschini, Andrea Orlando. Al governatore del Lazio guardano gli ex Pd ora in Leu, a partire da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Il presidente del Lazio è l’uomo scelto dal fronte che vuole archiviare Renzi. Prima delle candidature, un esponente dell’area che sostiene Zingaretti diceva: “Speriamo che ci sia solo un candidato a sfidare Nicola: così sarà una partita tra renziani e anti-renziani”. Ma non a caso le cose sono andate diversamente: il ‘renzismo’ puro e duro è rappresentato da Giachetti, sostenuto da Maria Elena Boschi, ma una fetta importante di renziani doc – Luca Lotti, Lorenzo Guerini, Andrea Marcucci – sono anche con Martina.
Renzi assicura che non farà al nuovo segretario “quello che hanno fatto a me”, ma parlando con i suoi è chiaro che il vincitore dovrà fare i conti con l’area renziana: “Vediamo se Zingaretti vince, e vediamo quanto prende. Intanto, deve superare il 50%. Ma anche in quel caso, un conto è se vince con il 52%-54%, un conto è se prende il 60% o più… Perché noi avremo comunque il 35%-40% dell’assemblea!”.
Parole non proprio rassicuranti per il possibile nuovo segretario che dovrà subito affrontare sfide complicate: ci sono le europee, c’è un governo che balla sempre di più e che riproporrà il tema di come rapportarsi ai 5 stelle.
Il Pd deve decidere come presentarsi alle europee e anche se Zingaretti dice che “su questo siamo tutti d’accordo”, le cose sono assai complicate. C’è Carlo Calenda che incalza con il suo manifesto ‘Siamo europei’, proponendo un listone unico dentro il quale dovrebbe confluire il Pd ma che dovrebbe tenere fuori gli ex Bersani e D’Alema.
Zingaretti finora ha evitato lo scontro con l’ex ministro, ma la sua prospettiva è diversa: il presidente del Lazio punta più ad uno schema di alleanze larghe, senza paletti, sul modello che è stato sperimentato in Abruzzo e Sardegna. Il volto di questa impostazione, per Zingaretti, è quello di Giuliano Pisapia, non a caso l’uomo che l’anno scorso aveva provato a ricomporre la frattura tra il Pd e ciò che è alla sinistra dei democratici.
Una rottura con Calenda sarebbe un problema in più per un Pd che difficilmente reggerebbe un risultato deludente come quello delle scorse politiche, o addirittura inferiore. Anche perché sono in molti a ritenere che Renzi abbia solo messo in stand by l’ipotesi di un suo partito, in attesa di vedere cosa accade alle europee.

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