"Tanto rumore per nulla": Shakespeare, Mattarella e la farsa del voto
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"Tanto rumore per nulla": Shakespeare, Mattarella e la farsa del voto

Sarebbe più dignitoso smetterla con la farsa delle elezioni, o quanto meno affermare chiaramente che appunto di farsa si tratta. Con tanti saluti alla sovranità del popolo.

Sergio Mattarella
Sergio Mattarella
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

28 Maggio 2018 - 16.19


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Sarà forse per la sua grottesca affinità con quel che sta accadendo nel nostro Paese in questi giorni, oggi mi è tornata in mente una celebre opera teatrale di William Shakespeare, “Tanto rumore per nulla”. L’intricata trama narra di un nobiluomo di Messina, Leonato, della sua splendida figlia, Ero, di suo fratello maggiore, Antonio, e della figlia di questi, la spiritosa Beatrice. La commedia inizia con Leonato che si prepara a ricevere alcuni amici di ritorno dalla guerra: il principe d’Aragona Don Pedro, il fratello illegittimo Don Giovanni, il nobiluomo fiorentino Claudio, il giovane padovano Benedetto. Accade poi che Claudio si innamora perdutamente di Ero, e i due giovani decidono di sposarsi, mentre Beatrice e Benedetto si punzecchiano tra schermaglie e battute. Per ingannare il tempo nella settimana che occorre per i preparativi nuziali, i promessi sposi e i loro amici decidono di fare un gioco, inteso a far innamorare Beatrice e Benedetto. Il gioco riesce, ma il fosco e tormentato Don Giovanni è lì per rovinare il comune gaudio: convince il proprio amico Borraccio a sedurre Margherita, la cameriera di Ero, e con uno stratagemma fare credere a Claudio che sia la sua amata a tradirlo. Don Giovanni riesce nell’intento, e l’infuriato e presunto becco Claudio il giorno del matrimonio umilia pubblicamente la promessa sposa, accusandola di infedeltà e abbandonandola all’altare. In attesa di capire cosa sia realmente accaduto, i membri della famiglia fingono che la giovane sia morta di dolore e la nascondono riservandosi di dimostrarne l’innocenza. Provvidenzialmente, quella sera stessa una guardia sente Borraccio vantarsi della propria bravata, e così i capi della polizia locale, Carruba e Sorba, lo arrestano insieme a Corrado, altro seguace di Don Giovanni. Provata l’innocenza di Ero, Leonato impone a Claudio di proclamare dinanzi a tutti quanto pura e innocente fosse Ero, quindi lo costringe a sposare sua nipote, una ragazza molto somigliante a Ero. Claudio si reca in chiesa convinto di sposare la cugina di colei che ama, ma con un colpo di scena finale la donna misteriosa e mascherata si rivela essere la stessa Ero. Nel giubilo generale, Benedetto chiede a Beatrice di sposarlo, e la commedia si chiude con una danza degli innamorati che celebrano il duplice matrimonio.
Sarà forse il tono tragicomico, le macchinazioni e gli inganni di cui è intessuta la trama (tutti li ordiscono, alcuni in cattiva fede, altri con le migliori intenzioni), il tema dell’onore violato, il gioco di simmetrie e di contrasti, svolti anche su codici linguistici diversi, sarà per tutto ciò ma questa commedia degli equivoci ricorda la mesta vicenda del difficile parto d’un governo che non riesce a vedere la luce: molto rumore per nulla.
Il finale, però, appare ben diverso. Qualcuno ha infatti stabilito che il matrimonio tra i “giovani” Salvini e Di Maio non s’ha da fare, e tra le “maschere” del teatrino della politica nazionale il ruolo del villain è interpretato da Mattarella, il quale, nomen omen, ha stroncato a suon di mattarello un governo appunto mai nato, decidendo motu proprio il futuro Presidente del Consiglio, e relegandolo ad un governo di minoranza.
Lasciando agli esperti di diritto costituzionale la liceità di questa scelta (che non si limita al legittimo potere di nominare i ministri, ma afferma la pretesa di impartire un suo indirizzo politico all’esecutivo), due considerazioni balzano evidenti: la pretestuosità delle motivazioni che hanno portato a questa decisione, e il fatto che in tal modo l’emerito Presidente della Repubblica ha bellamente sconfessato il risultato della tornata elettorale di marzo, noncurante di ciò che gli italiani con quel voto hanno espresso.
“Pretestuoso” non è aggettivo scelto a caso: sostenere che Paolo Savona, già ministro di questa Repubblica (dell’Industria, nel governo Ciampi) e con alle spalle una lunga esperienza di guida di banche e imprese, sia pericoloso per i destini nazionali perché contrario all’euro appare davvero un pretesto, strumentale a impedire la nascita del governo Conte. Con la sua “abiura”, l’ottuagenario economista aveva voluto tranquillizzare le schiere di timorosi per l’uscita dall’euro. Nel suo discorso Mattarella ha affermato “di aver fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico”, e di aver agito “per la difesa della Costituzione” e “nell’interesse della comunità nazionale”. Già, ma quale comunità? Nella motivazione della bocciatura di Savona compaiono alcune frasi rivelatrici: Mattarella ha infatti esternato i suoi timori per la “sfiducia degli operatori economici e finanziari”, e ha quindi bocciato la proposta del Ministro dell’Economia in quanto “può essere un segnale di allarme o di fiducia dei mercati.” “Operatori economici e finanziari”, “mercati”: grazie Presidente, almeno adesso l’oscura Entità per la cui insindacabile approvazione devono passare i governi incaricati ha un nome.
Che all’Italia dall’euro non convenga uscire (l’esempio grottesco della Gran Bretagna docet), lo sanno bene anche i capi dei partiti populisti che hanno vinto le elezioni, Salvini e Di Maio, i quali non a caso da mesi sull’argomento hanno decisamente invertito rotta. Ma evidentemente le forze di potere che nella realtà dei fatti, al netto della retorica del teatrino politico, governano il Paese, hanno pensato bene di non correre rischi e di soffocare sul nascere ogni possibile esperimento, temendo magari che tra improvvisazioni e castronerie questi “nuovi” qualcosa di buono per il Paese, a loro danno, avrebbero potuto anche partorirlo. Già, è più sicuro sguazzare nel putrido alveo della continuità. Guarda caso, quella continuità che ha prodotto lo sfacelo in cui versiamo e contro la quale la maggioranza degli italiani si è espressa con il voto del 4 marzo.
A questo punto sarebbe forse più dignitoso smetterla con la farsa delle elezioni, o quanto meno affermare chiaramente che appunto di farsa si tratta. Con tanti saluti alla sovranità del popolo.
“Lasciamola sola, che muoia” questa Italia: eh sì, ci vorrebbe davvero uno Shakespeare per raccontare questi nostri giorni.

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