Reato di tortura: la legge che nessuno vuole, è ferma al Senato
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Reato di tortura: la legge che nessuno vuole, è ferma al Senato

Dopo lo sprint, seguito alla sentenza di Strasburgo sui reati commessi dalle forze dell'ordine alla Diaz durante il G8 di Genova nel 2001, la legge è ferma in Senato.

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13 Giugno 2015 - 18.34


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La proposta di legge per istituire il reato di tortura anche in Italia aveva subito un’accelerata, dopo la la sentenza della Corte di Strasburgo sulla perquisizione alla scuola Diaz al G8 dell’8 aprile 2015. Pochi giorni dopo la sentenza, una proposta che introduce questo reato nella legislazione italiana ebbe il via libera della Camera.

Il testo è arrivato in Senato il 21 aprile 2015 e ha subito una battuta di arresto: è stato discusso in commissione Giustizia a Palazzo Madama che ha fiddato come data finale per la presentazione degli emendamenti il 10 giugno. Emendamenti che sono arrivati, corposi, da tutti i gruppi e sono ben 86 di cui 18 del Pd, 29 della Lega e una ventina di Forza Italia. E anche il Movimento cinque stelle ha fatto sapere di voler modificare il testo uscito da Montecitorio. Il rischio è che però nemmeno questa legislatura, nonostante il monito dell’Ue, risca ad approvare il provvedimento.

“La verità – ha spiegato un esponente Dem – è che nessuno vuole dire sì ad un disegno di legge che le forze dell’ordine temono come la peste…” L’Italia infatti ha ratificato quasi 30 anni fa la Convenzione dell’Onu contro la tortura, ma non è mai stata approvata una legge, rimbalzata da un governo all’altro, da una legislatura ad un’altra.

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Nel provvedimento è previsto che quello di tortura sia un reato comune, punibile con la reclusione da 4 a 10 anni e ascrivibile a chiunque “con violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata, o comunque sottoposta a sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche” per “ottenere informazioni o dichiarazioni, per infliggere una punizione, per vincere una resistenza” o “in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose”.

Scatta l’aggravante quando a commettere il reato è proprio un pubblico ufficiale che agisce con abuso di potere o violando i doveri inerenti alla sua funzione. In questo caso la pena massima è di 15 anni di carcere, la minima di 5, con una clausola: la sofferenza inflitta deve essere “ulteriore” rispetto all’esecuzione delle legittime misure privative o limitative dei diritti. La pena, per pubblici ufficiali e non, sale di 1/3 in caso di gravi lesioni, di 2/3 per morte non voluta della vittima e si trasforma in ergastolo in caso di decesso causato volontariamente.

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La legge introduce inoltre il reato di istigazione del pubblico ufficiale (ad altro pubblico ufficiale) a commettere tortura: da 1 a 6 anni di reclusione la pena prevista.

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