Il Personal Party di Renzi
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Il Personal Party di Renzi

Dopo aver definitivamente cancellato la memoria storica del partito, il nuovo segretario Pd rivela senza mezzi termini quanto il marketing valga più della democrazia.

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16 Dicembre 2013 - 21.03


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di Anna Lombroso

«Rimborsi elettorali, pronti a stop ma si impegnino su riforma elettorale, abolizione Senato e taglio costi politica». Abituato allo scambio di figurine più che ai negoziati, persuaso delle tecniche di marketing più che dalla contrattazione politica, incantato delle virtù del libero commercio più che di quelle della democrazia, Renzi tratta i soldi pubblici come fossero la Sua collezione Panini, oggetto di mercanteggiamento con quella che considera la Sua opposizione, da comprarsi per sostenere il Suo prossimo governo, come se fossero i Suoi quattrini, vinti alla Sua ruota della fortuna per acquistare la Sua presidenza del Consiglio, dopo aver definitivamente cancellato la memoria storica e un onorevole futuro al Suo partito, che considera l’inevitabile passaggio necessario e obbligato per il Suo premierato.

Ha proprio appreso bene la lezione Mediaset, ha fatto sua la Weltanschauung del mentore non troppo occulto. Da seminarista volonteroso è diventato un sacerdote ossequioso della chiesa delle privatizzazioni, così che pensa che tutto possa essere roba Sua: voti, consenso, denaro pubblico, Firenze, parlamento, Costituzione. In modo che la teologia del mercato si combini con il primato mediatico: offerte commerciali invece di proposte di legge, svendite e liquidazioni di beni e diritti in sostituzione delle riforme, liturgie di primariato al posto delle elezioni, facciate à la manière di Michelangelo altro che difesa del suolo, precariato ufficiale ed economia informale in cambio di tutele e regole, annunci tramite stampa al posto delle azioni, parole invece dei fatti.

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Il grullo che si crede furbo ha pensato di prendere due piccioni in una volta, snidare Grillo che non poteva che rispondere di no, e perseguire il suo disegno di “partito impresa”, costretto – si fa per dire – a licenziare arcaico personale, quadri e funzionari, da sostituire con agenti, venditori porta a porta, esattori; appagare quel po’ di antipolitica che alligna anche tra i suoi elettori, condannati a accontentarsi di primarie vista la riduzione a cerimonia di conferimento e suffragio della nomenclatura delle elezioni; e favorire il passaggio alla definitiva privatizzazione del finanziamento, che ha già disinvoltamente sperimentata secondo scelte dinamiche, smart, pragmatiche e disinvolte.

Applicando i vecchi sistemi collaudati: buttare qualche braciola “civile” pensando di placare la fame di un lavoro che progetta di umiliare definitivamente, di un welfare del quale vuole abbattere gli ultimi capisaldi, è probabile che il Pieraccioni della politica, rappresenti davvero la nostra contemporaneità, quella che ha cancellato orizzonti comuni entro i quali orientarsi, per la liquefazione di classi e ceti, dopo che la società delle disuguaglianze ha visto allargarsi a dismisura la forbice tra i primi e gli ultimi fino a renderli incomunicanti. È lui il nuovo volto prestato a un ceto dirigente incurante del discredito, paga ricevuta per la mancanza di responsabilità e competenza, a èlite indifferenti, collocate su pianeti diversi da quelli abitati dai destinatari delle loro decisioni, ormai invisibili da essi, testimonial e soggetto al potere finanziario, aspirante ad essere ugualmente immateriale, per agire a distanza senza sporcarsi le scarpe, mediante flussi di azioni eterodirette da lontane oligarchie delle quali agognano di far parte.

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Fa la voce grossa, come i guappi, come i padroncini dei camion o come i caporali in campagna che mettono sotto i raccoglitori di arance. Qualcuno deve averlo convinto che agli italiani piace più ubbidire che comandare. Non ci resta che dissuaderlo.

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