Chi ha ucciso Falcone? Grillo rilancia il mistero
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Chi ha ucciso Falcone? Grillo rilancia il mistero

Sul blog del comico un articolo di Stefania Limiti parla dei retroscena della morte del magistrato e racconta la storia di Nino Agostino e Emanuele Piazza uccisi dalla mafia.

Chi ha ucciso Falcone? Grillo rilancia il mistero
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16 Luglio 2013 - 12.28


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i]Sul blog di Beppe Grillo un post della giornalista Stefania Limiti, affronta il tema dei misteri di mafia e della strategia della tensione e racconta alcuni retroscena della morte del magistrato e dell’uccisione di Nino Agostino e Emanuele Piazza.

Il post si apre così:[/i]

“La strategia della tensione non appartiene a una lontana fase storica del nostro Paese, ma non ha mai abbandonato l’Italia. Alla luce di questa analisi dobbiamo leggere tutti i fatti di sangue, anche l’ eversione politica che hanno segnato la Storia del nostro paese, che hanno determinato sempre le caratteristiche dei gruppi dirigenti, le scelte fondamentali. Anche la strage di Capaci rientra a pieno titolo all’interno di un episodio di strategia della tensione. Dobbiamo iniziare a pensare che quella dinamica che oggi conosciamo bene è stata inaugurata con Portella delle Ginestre, dove c’era da una parte la mano del bandito Giuliano e dall’altra la mano di militari esperti della Decima Mas. Quella dinamica, quel doppio gioco, quel doppio livello, quella compresenza di strutture e uomini con logiche, ruoli e obiettivi e nature diverse, è sempre stata la caratteristica dei piani eversivi”.

Il ragazzo che salvò Falcone

Nino Agostino e Emanuele Piazza sono due giovani che credevano molto nel loro lavoro e che hanno pagato duramente la loro passione, Emanuele Piazza (nome in codice: Noto) era un collaboratore dei servizi segreti e andava a caccia di latitanti, anche Nino Agostino, che però era un agente del commissariato di San Lorenzo. Entrambi hanno visto delle cose che non dovevano vedere e hanno trovato una morte terribile, Nino Agostino è stato ucciso nell’agosto dell’89 insieme anche a sua moglie e Emanuele Piazza è scomparso nel ’90.

Per tutti e due si è tentato di accreditare l’ipotesi di omicidi passionali o di piste del tutto improbabili, perché poi la verità con molta lentezza è emersa. Si trovarono nel giugno 89 all’Addaura dove c’era la villa a disposizione di Falcone per l’estate, dove Falcone doveva passare qualche giorno con alcuni colleghi e amici e Giovanni Falcone partecipò al funerale di Nino Agostino e in quella occasione disse “Questo ragazzo mi ha salvato la vita”.

Falcone aveva intuito la dinamica nascosta dietro l’attentato dell’ Addaura e capito che quei due ragazzi erano lì perché sapevano che qualcuno si era mosso per compiere quella strage e tentare, con i loro mezzi, di evitarla.

La ricostruzione della dinamica della Addaura è molto recente, ma oggi sappiamo che l’esplosivo che era stato sistemato sulle rocce proprio di fronte a quella casa non saltò in aria perché non funzionò l’innesco e il gruppo, il commando, che organizzò l’attentato in realtà fu costretto a fuggire per non lasciare tracce. Preferirono lasciare il campo piuttosto che svelare presenze che non potevano essere svelate. Il pentito Lo Verso ha usato parole molto chiare per dare una idea della collocazione e del ruolo svolto da questi due ragazzi, disse “Loro facevano parte dei servizi buoni”, perché poi ci sono anche quelli cattivi e, molto probabilmente, quelli cattivi erano insieme quel giorno al gruppo di mafiosi per l’uccisione di Falcone. Emanuele Piazza aveva lavorato anche a Roma negli ambienti legati a Gianni De Gennaro e poi era voluto tornare in Sicilia e svolgeva una attività di free lance nel suo ambiente, tentava di accreditarsi all’interno dei servizi catturando latitanti e la stessa cosa faceva Agostino. Per molto tempo la memoria di questi due giovani è stata infangata, perché furono raccontate molte cose non vere su di loro, in realtà loro erano venuti a sapere, probabilmente all’interno dei loro stessi ambienti, cosa stava per accadere e arrivarono dal mare tentando di evitare la strage che in realtà fu evitata da un errore nell’innesco. Poi per Falcone ci fu un terribile secondo appello.

Falcone aveva capito tutto
Dopo l’attentato dall’Addaura Falcone usò delle parole molto importanti e molto forti rimaste nell’immaginario di tutti noi, soprattutto la prima parte di queste parole, quando Falcone fa riferimento alle “menti raffinatissime” spiegando che strutture e organismi si erano mossi per organizzare quell’attentato, quindi lui stesso vede la chiave per capire la complessa dinamica dell’attentato dall’Addaura, facendo riferimento a un doppio livello, non si riferì solo al contributo mafioso.

Falcone era un uomo che sapeva moltissime cose, sapeva troppo, e lui sapeva di sapere troppo e molti, tutti, sapevano che lui era un concentrato di informazioni che lo rendevano un personaggio pericoloso per alcuni ambienti. Sappiamo che Falcone era intenzionato a capire molte altre cose oltre a quello che già aveva avuto modo di scoprire attraverso le sue indagini, sappiamo che voleva mettere le mani sulla mafia che si trovava a Milano, quindi voleva andare a capire che fine avessero fatto gli ingenti capitali che erano sparsi nella disponibilità della mafia dei Bontade, che era stata nella guerra della fine anni 70 la mafia perdente, ma tutti quegli ingenti flussi di denaro che erano passati anche attraverso una piccola banca di Milano, la banca Rasini, come fece notare Michele Sindona, l’uomo che più di tutti organizzò il riciclaggio di quei capitali, Falcone chiedeva dove sono finiti? Nelle disponibilità di chi? Aveva intuito il ruolo delle strutture occulte, voleva indagare su Gladio, incontrò molti ostacoli, voleva indagare e capire i soldi che si trovavano nel famoso conto in Svizzera a chi appartenessero e che cosa servissero. Falcone aveva capito trame oscure che legavano molti casi italiani, l’intreccio tra criminalità e le azioni massoneria, aveva le chiavi di accesso a molti misteri. E quindi in qualche modo anche per lui si può dire, come Imposimato e Provvisionato hanno detto di Moro, “Falcone doveva morire”. Erano tutti quelli che non volevano che queste importanti informazioni venissero utilizzate da Falcone, nomi e cognomi non si sanno, ma credo che noi presto avremo delle importanti novità investigative. Non si sono mai fermate le indagini sulla strage di Capaci potremo contare su nuovi pezzi di verità che ci faranno capire dinamiche occulte, quelle dinamiche proprio del doppio livello, come racconto nell’inchiesta pubblicata da Chiarelettere. Sono quelle dinamiche che ci possono svelare i piani di destabilizzazione cui è sempre stata sottoposta l’Italia.

I mafiosi a Capaci non erano soli

Ho utilizzato soprattutto l’inchiesta fatta dal procuratore Tescalori, ho messo insieme molti elementi per cui, contro ogni ragionevole dubbio, è possibile affermare che a Capaci non ci furono solamente i killer di Cosa Nostra. A Capaci si mossero pure potenti in grado di trasformare quello che Totò Riina voleva fare a Roma, cioè uccidere Falcone per vendicarsi del suo operato e impedirgli di ostacolare le attività di Cosa Nostra, qualcuno si è adoperato per trasformare un assassinio di mafia in una strage politica.
E in una strage politica significa che lo scenario in cui viene ucciso Falcone, la moglie e gli uomini della scorta diventa uno scenario di guerra, in cui vengono messi in moto tutti i meccanismi tipici di questo scenario. Per esempio, prima dello scoppio dell’esplosivo ci fu un black out telefonico nella zona, così come avviene in genere in casi dei grandi delitti politici, qualcuno disse che erano saltati i cavi telefonici, in realtà non funzionavano neanche i telefoni cellulari.

La notizia dell’attentato a Falcone trapelò in alcuni ambienti, addirittura ne fece riferimento esplicito la agenzia di Stampa Repubblica, un foglio legato ai servizi che ha avuto sempre un ruolo abbastanza oscuro in alcuni momenti della nostra Storia. Qualcuno si adoperò perché un assassinio mafioso diventasse una strage politica, con le conseguenze politiche che infatti la morte di Falcone ebbe: bloccare in quel momento una dinamica democratica. Molti elementi raccolti sulla scena del crimine ci raccontano di una dinamica in cui i boss di Totò Riina non sono stati gli unici esecutori. Loro hanno organizzato, diciamo così, una parte della scena. Hanno concluso il loro lavoro l’8 maggio, per quella data era già tutto pronto. Avevano sistemato contenitori di tritolo sotto la strada di Capaci. Stavano solamente aspettando il momento buono, ma nello stesso punto furono ritrovati degli oggetti che non possono essere stati lasciati lì per imperizia, disattenzione e soprattutto non possono essere stati lasciati lì molto tempo prima. Una ricostruzione attenta ci può fare dire che qualcun altro agì e agì anche sul piano prettamente militare preoccupandosi di rafforzare la carica esplosiva. Ci sonotracce di esplosivo militare e di nitroglicerina che non sono compatibili con l’esplosivo utilizzato dalla mafia, che è in parte anfo e in parte tritolo. Tutto questo fa ricostruire una scena del crimine in cui si può dire che i mafiosi non erano soli. Qualcun altro intervenne per fare in modo che la strage colpisse con le conseguenze che tutti noi sappiamo. Furono trovati dei guanti in lattice, guanti da chirurgo, una torcia e altri oggetti che dalle testimonianze anche meticolose dei pentiti sicuramente non erano stati utilizzati dagli uomini di Totò Riina.

La strategia della tensione è viva e lotta contro di noi

C’è stato recentemente un altro arresto, ma quest’ultima inchiesta in realtà chiude forse il quadro delle responsabilità, diciamo così, esecutive, perché questa persona, questo Cosimo D’Amato, era un pescatore che contribuì a organizzare la collocazione dell’esplosivo, chiarisce definitivamente il quadro dell’esecuzione dal punto di vista mafioso. Restano per ora senza volto, per ora, gli uomini che hanno contribuito a fare in modo che Falcone morisse in uno scenario di guerra e a organizzare una imboscata militare non assolutamente alla portata dei gruppi di Cosa Nostra. Resta sullo sfondo, sconosciuto ancora, il contributo di organismi che hanno lavorato, evidentemente non solo nel caso di Capaci, per la destabilizzazione del nostro paese. Dobbiamo pensare che la strategia della tensione non appartiene a una lontana fase storica del nostro Paese, ma che in realtà non ha mai abbandonato l’Italia. Alla luce di questa analisi dobbiamo leggere tutti i fatti di sangue, anche l’eversione politica che hanno segnato la Storia del nostro Paese, che hanno determinato sempre le caratteristiche dei gruppi dirigenti, le scelte fondamentali. Anche la strage di Capaci rientra a pieno titolo all’interno di un episodio di strategia della tensione. Dobbiamo iniziare a pensare che quella dinamica che oggi conosciamo bene e che è stata inaugurata con Portella delle Ginestre, dove c’era da una parte la mano del bandito Giuliano e dall’altra la mano di militari esperti della Decima Mas. Quella dinamica, quel doppio gioco, quel doppio livello, quella compresenza di strutture e uomini con logiche, ruoli e obiettivi e nature diverse, è sempre stata la caratteristica dei piani eversivi. Questo ha scompaginato sempre la scena del crimine e ha reso non leggibile le stragi, è in definitiva quello che ha reso impossibile punire i responsabili e dare una risposta alle vittime e rende il nostro Paese ancora un paese con una memoria di ricostruire, non possiamo ricostruirla senza capire la dinamica vera degli avvenimenti, chi c’è dietro le organizzazioni e gli uomini che realizzano attentati politici. E’ evidente che in ogni caso non sono stati soli, così come non sono stati soli gli uomini di Totò Riina.

Un saluto a tutti e se le cose che vi ho detto vi interessano vi invito a passare parola.”

Stefania Limiti

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