Rodotà, il giurista che piace a sinistra e grillini
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Rodotà, il giurista che piace a sinistra e grillini

Mai comunista, è stato però sempre vicino alla sinistra della sinistra. Storia di un professore che piace agli amici e non spaventa i nemici.

Rodotà, il giurista che piace a sinistra e grillini
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16 Aprile 2013 - 18.12


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Beppe Grillo spinge il Pd a votare uno dei suoi candidati al Colle: in caso di rifiuto della Gabanelli e del secondo arrivato alle Quirinarie, Gino Strada, «Rodotà deve essere votato, è un ottimo nome che può essere speso dalla sinistra. Se loro diranno di sì o di no non lo sappiamo ancora». Al momento favorito dal Movimento 5 Stelle e dal Pd rimane Stefano Rodotà.

Docente universitario (insegna diritto civile alla Sapienza), convinto sostenitore della democrazia assembleare, laico, una vita dedicata ai diritti. Ma Rodotà non è un novellino della politica, con tre legislature alle spalle ha un’esperienza di tutto rilievo. Nasce come radicale, l’unico partito di cui abbia avuto una tessera, approda nel Palazzo nel 1979 da indipendente del Pci, chiamato (è lui stesso a rivelarlo) da Luigi Berlinguer. Condiziona il suo sì a parlare con Ugo Pecchioli, da cui lo divideva (erano gli anni di piombo) una concezione opposta di quella che Pecchioli definiva «fermezza».

Per Rodotà al primo posto ci sono i diritti, e li difende a ogni costo: per esempio, contro il teorema Calogero, quando scattano gli arresti del 7 aprile nell’area dell’autonomia e di Toni Negri. Viene rieletto nel 1983 e diventa presidente del gruppo della Sinistra indipendente.

Ai tempi della Bolognina, abbraccia la svolta, e diventa il primo presidente del Pds. Una guida di garanzia, pensando alla minoranza. Per formazione mai comunista, Rodotà è comunque vicino all’ala sinistra dell’ormai ex Pci. Torna in parlamento col Pds nel 1992, diventando vicepresidente della camera.

Ama la politica gli piace, ma non gli dispiacciono le cariche istituzionali. Il suo nome per il Colle viene fatto anche allora. Quando il presidente della camera, Scalfaro, diventa capo dello stato, il gioco degli equilibri politici (Scalfaro viene sostituito da Napolitano) lo porta a dimettersi dalla vicepresidenza di Montecitorio. I maligni sussurrano che l’intera operazione non gli sia andata giù. Da proporzionalista, poi, non condivide la linea di Occhetto sul referendum del ‘93.

E così, al termine della legislatura, non si ricandida e torna all’insegnamento universitario. Fra il 1997 e il 2005 è il primo presidente dell’Autorità garante della per la protezione dei dati personali. Ora il suo nome torna in campo per il Quirinale.

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