Cutro due anni dopo: per non dimenticare
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Cutro due anni dopo: per non dimenticare

“25 febbraio 2025. Due anni fa, a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, un’imbarcazione di legno sovraffollata si spezzava, causando la morte di almeno 94 persone, tra cui bambine e bambini. 

Cutro due anni dopo: per non dimenticare
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25 Febbraio 2025 - 19.49


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Dichiarazione di Laurence Hart, Direttore dell’Ufficio di Coordinamento del Mediterraneo dell’Oim, Nicola Dell’Arciprete, Coordinatore della Risposta in Italia per l’Ufficio Unicef per l’Europa e l’Asia Centrale, e Chiara Cardoletti, Rappresentante dell’Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino

“25 febbraio 2025. Due anni fa, a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, un’imbarcazione di legno sovraffollata si spezzava, causando la morte di almeno 94 persone, tra cui bambine e bambini. 

La barca, che trasportava circa 180 persone provenienti da paesi come Afghanistan, Iran, Pakistan e Siria, era partita dalla Turchia quattro giorni prima.  Sono sopravvissute solo 80 persone, inclusi alcuni parenti di coloro che hanno perso la vita. 

Nonostante l’indignazione suscitata in occasione di quell’ennesimo, drammatico naufragio, tragedie simili hanno continuato a verificarsi. Negli ultimi due anni, oltre 5.400 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo. Ogni morte è una disgrazia che distrugge la speranza di una famiglia di trovare pace, sicurezza e la possibilità di ricostruire una vita dignitosa in un nuovo Paese. 

Questa cupa ricorrenza è un promemoria della necessità urgente di un sistema strutturato ed efficace di ricerca e soccorso in mare, basato sul diritto internazionale, che preveda il coinvolgimento dell’UE a supporto del lavoro vitale della Guardia Costiera italiana. 

Ricordiamo che salvare vite in mare non solo è una tradizione marittima di lunga data ma è un dovere legale degli stati. Le traversate del Mediterraneo sono pericolose, le imbarcazioni utilizzate sono inadatte alla navigazione e rischiano di capovolgersi con facilità. Il soccorso deve avvenire il più rapidamente possibile. 

Ribadiamo inoltre l’appello ad ampliare e rafforzare canali sicuri e regolari di migrazione – tra cui il programma di reinsediamento, i ricongiungimenti familiari, le evacuazioni di emergenza, i corridoi umanitari, quelli universitari e lavorativi – come alternative ai pericolosi viaggi in mare.  

Solo investendo in un sistema coordinato di ricerca e soccorso e sviluppando politiche a lungo termine si potranno contrastare le reti criminali di trafficanti, proteggendo al contempo i diritti umani delle persone che intraprendono questi viaggi, indipendentemente dalla loro origine.” 

Il racconto di chi è sopravvissuto

A raccoglierli, in un bel reportage per Il Quotidiano del Sud, è Giacinto Carvelli.

«Sulla barca eravamo io, mio zio Feras Algazi, fratello della mamma, e mio fratello di 7 anni. Noi due siamo sopravvissuti, ma mio fratello piccolino è morto. Un momento molto particolare che è rimasto sempre impresso nella mia mente è quello legato alle ultime parole di mio fratello. Mi ripeteva che aveva freddo. “Ho freddo. Ho freddo”. Poi, ad un certo momento gli è uscita della schiuma bianca dalla bocca e non rispondeva più. Era morto». Questi i drammatici ricordi di Assad Almolki, siriano, che si trovava, quella tragica notte del 26 febbraio, a bordo del caicco che si è schiantato sugli scogli a poche decine di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro Su cosa ha provato, a distanza di due anni, nel tornare a Crotone, il giovane siriano dice che «sono due sentimenti, nello stesso momento. Siamo contenti ma anche tristi. Tristi per quello che è successo nella barca, per i morti che ci sono stati e, soprattutto, mio fratello piccolino, che ho perso. E contento di trovare i cittadini di Crotone, della Calabria e di tutta l’Italia, di incontrarli di nuovo ed essere di nuovo qui».
Pescando nei suoi ricordi, Assad racconta anche quanto accaduto subito dopo lo sbarco: «Appena siamo stati presi dal mare ci hanno portato all’ospedale, poi siamo andati al campo Sant’Anna dove siamo rimasti giorni. E poi, mi ricordo, ci hanno fatto uscire, ci hanno portato all’hotel Casa rossa e siamo rimasti finché sono riuscito a portare mio fratello con me, la salma del mio fratello, del mio fratello». Un altro ricordo vivido nella sua mente è quello dell’incontro con la premier Giorgia Meloni che ha accolto una delegazione di sopravvissuti e familiari delle vittime. «Io ricordo che, nel momento in cui ho incontrato, dopo averci invitati, il Primo Ministro, Giorgia Meloni, lei ci ha chiesto: “Avete delle cose che chiedete?” Ho risposto: “Io voglio la mia famiglia, voglio che mi raggiunga la mia famiglia qua. Voglio anche che stiano qua in Italia, che rimangono protetti ed in sicurezza, anche accolti qui in Italia. Questo mi aveva promesso. Mi ha detto: “farò di tutto di farli portare”. Ma fino adesso sono passati due anni, la promessa non è stata mantenuta e la mia famiglia ancora è rifugiata in Turchia e non riescono a raggiungerla e neanche ad avere la possibilità di andare a trovare la salma di mio fratello».  Il giovane siriano adesso vive in Germania, che era anche la destinazione principale di coloro che erano sulla barca a Steccato di Cutro. «Sì – aggiunge – perché sapevamo che c’è una forte comunità di siriani, anche afghani, e c’è anche la possibilità del lavoro. E lì c’è più assistenza e accoglienza per i rifugiati».
Anche lo zio, Feras Algazi, anch’egli siriano, mantiene ricordi vividi della tragedia. «Abbiamo fatto – racconta – 7 giorni di viaggio. Me li ricordo tutti i momenti che abbiamo passato, dalla felicità di essere nella barca e stare per raggiungere l’Europa. Ma ci sono anche ricordi duri, specialmente le ultime 3 o 4 ore dove è naufragata la barca ed è stato il terrore». E sottolinea come ci sia stato proprio un brevissimo tempo, quello che ha segnato il passaggio dalla felicità al terrore, dal vedere la terra tanto agognata alla tragedia che si è poi consumata.
«Eravamo contenti – continua Feras – stavamo per raggiungere il nostro obiettivo, la nostra destinazione; ma, la tristezza è dura perché circa 120 persone sono morte nella barca. Eravamo 7 giorni insieme, abbiamo stretto amicizie, eravamo insieme nel viaggio, ma, poi, vedere quei corpi, i corpi di 120 persone che nell’acqua erano morti è stato un momento molto, molto duro». Alla domanda su cosa risponde a chi, subito dopo il loro arrivo, aveva detto che non dovevate partire, la risposta è stata diretta: «Noi veniamo dalla Siria. Siamo partiti, abbiamo iniziato a lasciare la nostra terra, la Siria, da quando è iniziata la guerra. Io e la mia famiglia rischiamo comunque la morte. Siamo comunque morti lì dove eravamo. In Siria mio fratello è condannato a morte perché lui era un militare ed è uscito dall’esercito. Io stesso rischio anche la morte. Per questo siamo andati in Turchia, ma in Turchia non abbiamo trovato rifugio; non siamo ben accolti. «Rischiamo tutti i giorni di essere rimpatriati di nuovo in Siria. Il rischio della morte c’è: l’avevamo in Turchia, e per questo siamo partiti. Rischiare di nuovo per noi è la stessa cosa. Comunque, in Europa aspettavamo la speranza, l’accoglienza, la protezione e che ci salvano. Ma, questo non l’abbiamo neanche trovato».
E sulle condizioni del viaggio ha detto ancora: «Eravamo sempre in preda alla paura durante tutto il viaggio, perché non sai che cosa succede. E non è un viaggio organizzato con una nave sicura; non abbiamo dei posti comodi; non era comodo per niente il viaggio e c’era sempre il rischio che succedesse qualcosa. Aspettavamo solo l’arrivo e toccare la terra per essere tranquilli». E così conclude il suo racconto: «I viaggi come quello che abbiamo fatto noi su una nave sono pericolosi, ma la vita da dove siamo partiti è pericolosa di più. Certo, spero che ci siano più salvataggi, che ci sia più aiuto alle persone ed ai rifugiati. Io sono riuscito a portare, a far giungere da me la mia famiglia, e spero anche che mio nipote riesca a portare anche i suoi genitori, affinché stiano con lui. Perché ha bisogno di lui e sua madre ha bisogno di suo figlio». Cutro, per non dimenticare.


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