Ci sono denunce così spontanee, vere, sentite, dolorose, che non richiedono una parola in più. Valgono più di tante altre denunce, di reportage duri, di interventi politici e lamentele.
Sulla grave situazione che Agrigento è costretta a vivere per colpa di malgoverno, ritardi e sprechi, vale leggere questo sfogo sui social di una donna, agrigentina, costretta ad andare a vivere lontana dalla sua Sicilia.
Chi è responsabile di questa situazione dovrebbe togliere il disturbo, dimettersi, accompagnato dalla vergogna e dal disonore.
Ecco la lettera di Giuseppina Randazzo:
“Me ne sono andata da Agrigento quasi vent’anni fa. Era l’agosto 2005. La prima cosa che ho fatto non appena arrivata nella nuova casa di Genova è stata quella di mettere in fila i miei tre figli vicino al lavandino della cucina.
Ho aperto il rubinetto e ho offerto a ciascuno di loro un bicchiere d’acqua. Acqua, sì. Non una merendina ma un semplice bicchiere d’acqua. I miei figli, allora bambini, mi hanno guardata sbigottiti, forse pensando che la mamma fosse impazzita. Mi guardavano con il bicchiere in mano e non bevevano. Avevano paura.
Ho detto loro che non soltanto quell’acqua era potabile ma che usciva dal rubinetto ininterrottamente. Ininterrottamente. Così, ancora restii, hanno cominciato a bere. Era fresca e buona. E non finiva. Ho preso anch’io un bicchiere d’acqua e ho bevuto.
Sapevo che un giorno avrebbero dimenticato che cosa vuol dire non avere l’acqua corrente, speravo però che quel momento di sbigottimento e istantanea gioia sarebbe rimasto nella loro memoria.
“Siamo stati adottati da una mamma ricca”, dicevo loro ridendo.
Sì, perché Genova sembrava avere tutto: bus, treni, vie, servizi e tanta acqua. Potevamo tirare lo sciacquone tutte le volte che ne avevamo bisogno, potevamo fare la doccia ogni giorno, potevamo dimenticare di comprare l’acqua da bere, potevamo cucinare con l’acqua del rubinetto, potevamo persino fare tante lavatrici e pulire la casa e potevamo permetterci di non avere cisterne di raccolta, bidoni da conservare per il trasporto dalle fontane e persino di non comprare botti d’acqua il cui costo al metro cubo era dieci volte più alto della norma e l’acqua era pure sporca.
Potevamo finalmente dirci italiani, insomma, senza vergognarci del nostro Stato.
Sono passati vent’anni. Da circa dieci anni, non sono più andata in Sicilia. I miei fratelli e i miei genitori, piano piano, mi hanno seguita e ora vivono tutti qui. Mio padre è morto ad agosto del 2024 e ha vissuto gli ultimi anni della sua vita lontano dalla sua terra.
Fino a qualche mese prima di andarsene, viaggiava con mia madre in auto tutta la notte per rivedere la nostra terra. Gli mancava. Manca anche a me, ma adesso che è morto anche mio padre non credo tornerò mai più in Sicilia.
Credo che quello che mi manca di più siano gli odori, la vista, il sole e il linguaggio.
Questa mamma adottiva è stata molto buona con me perché io l’ho rispettata, ho apprezzato ogni suo dono anche se so che, come accade in ogni città, i suoi abitanti si lamentano per qualche carenza.
All’inizio sorridevo pensando che i genovesi non avessero idea della ricchezza che possedevano in termini esistenziali e civili, adesso mi sono abituata e quando si lamentano li sto ad ascoltare perché fanno bene.
Sì, fanno bene, perché se tutto funziona qui è grazie a loro, ai genovesi.
Loro sanno come fare in modo che la città funzioni. Conoscono i loro diritti, sanno come far fronte comune, sanno come affrontare i problemi, sanno che sono loro a scegliere i politici e li scelgono bene.
A volte magari vince una parte e non l’altra, ma nessuno di loro si è mai permesso di amministrare la città male fino al punto di farle perdere la dignità.
Ho ancora il mio accento agrigentino. Ogni volta che mi incontra qualcuno che non mi conosce mi chiede da dove vengo. Sorrido.
Della mia terra conservo il linguaggio, conservo le tradizioni, conservo il ricordo, ma null’altro.
Io non sono più agrigentina e non sono genovese. Le mie radici si sono inaridite e l’unico spazio in cui mi riconosco è quello mentale in cui è nascosta la mia infanzia, la mia adolescenza e la mia giovinezza.
Si parla spesso della migrazione dei cervelli, dimenticando che a volte si può essere migranti anche dentro la propria nazione.
Io avevo un lavoro a tempo indeterminato in Sicilia ma ho preferito dare la possibilità ai miei figli e alla mia famiglia di vivere in un posto che non vantasse soltanto un glorioso antico passato ma anche un dignitoso presente ricco di opportunità.
Un posto in cui, se racconto dei problemi d’acqua che avevo nella mia città, gli abitanti si mettono a ridere pensando che sia una delle mie solite battute.
Quando da giovane vivevo ad Agrigento, ho scritto spesso alle testate nazionali sperando che il problema della mancanza d’acqua fosse in qualche modo rappresentato al resto della nazione.
Una volta pubblicarono un articolo su Il Giornale, poi niente.
Quando ho saputo che Agrigento era stata nominata Capitale della cultura, ho sperato che finalmente qualcuno si accorgesse dell’ingiustizia che vive un popolo che pur è definito italiano.
Un’ultima cosa, che forse il resto degli italiani non sanno.
Ad Agrigento esiste ancora il fontaniere.
Ad Agrigento tutti i palazzi hanno una grande vasca di raccolta dell’acqua.
Ad Agrigento moltissime case hanno interi terrazzi ricolmi di cisterne celesti, alcune altre forse hanno ancora le cisterne grigie in amianto.
Basta sorvolare la città con un drone per scoprire la verità sulla capitale della cultura.
Oltre i templi, oltre i paesaggi, oltre le architetture, ci sono tetti che attendono l’acqua perché da noi l’acqua è la vera turista non stanziale.
Viene ogni venti giorni e va via dopo due ore.
Neanche il tempo di preparare un buon piatto di pasta.”