Su Libia e migranti, c'è un giudice a Napoli: una sentenza che fa storia
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Su Libia e migranti, c'è un giudice a Napoli: una sentenza che fa storia

Affidare i migranti alla cosiddetta Guardia costiera libica è reato. Lo ha stabilito con una sentenza che farà da apripista

La nave italiana che ha riportato i migranti in Libia
La nave italiana che ha riportato i migranti in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Ottobre 2021 - 17.16


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A volte, troppe, sulle pagine dei giornali si legge la parola “storico”. Storico accordo, storico negoziato, storico incontro, storica stretta di mano, e via “storicizzando”. Spesso la storia ci riporta alla realtà e ridimensiona ciò che di “storico” aveva poco o nulla. Stavolta, però, questo aggettivo ci appare appropriato all’evento. Che si consuma in un’aula di tribunale.

C’è un giudice a Napoli

Affidare i migranti alla cosiddetta Guardia costiera libica è reato. Lo ha stabilito con una sentenza che farà da apripista, il Tribunale di Napoli che ha condannato il comandante della nave Asso28 a un anno di reclusione perché dopo avere soccorso 101 migranti, tra cui diversi minori e alcune donne incinte, accettò di consegnarli a Tripoli.
È la prima volta che in Europa si arriva a un verdetto di questa portata e che, di fatto, conferma come la Libia non possa essere riconosciuta come luogo sicuro di sbarco. D’ora in avanti qualsiasi nave civile coinvolta nei respingimenti rischia un processo e una condanna.

Annota su Avvenire Nelllo Scavo: “A disposizione dei magistrati, oltre alle indagini svolte dalla capitaneria di porto di Napoli, c’erano anche le registrazioni audio delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave ‘Open Arms’. Le comunicazioni, che vennero pubblicate da Avvenire, mostravano una serie di anomalie nella gestione del caso e vennero immediatamente acquisite dalla procura di Napoli, con una inchiesta dei magistrati Barbara Aprea e Giuseppe Tittaferrante e il coordinamento del procuratore aggiunto Raffaello Falcone.
«Alla nostra richiesta di fornirci i dettagli delle posizioni, ci diedero indicazioni poco chiare – aveva ricordato l’allora capomissione di Open Arms, Riccardo Gatti -. Questo per farci allontanare, ma poi abbiamo capito che era successo qualcosa di strano». La Asso 28 è un rimorchiatore di proprietà della compagnia Augusta, di supporto alle piattaforme petrolifere al largo della Libia. Sulla vicenda era intervenuta l’Eni lo stesso giorno del respingimento, smentendo di essere stata coinvolta nell’episodio. «La nave Asso 28 che opera per conto della società Mellitah Oil & Gas (gestita da Noc, la compagnia petrolifera statale libica di cui Eni è azionista, ndr) a supporto della piattaforma di Sabratah – spiegò il 30 luglio 2018 un portavoce all’Ansa – ha prestato soccorso ad un barcone con a bordo 101 migranti arrivato in prossimità della piattaforma a causa di condizioni meteo avverse». Poi aggiungeva: «L’operazione di soccorso è stata gestita interamente dalla Guardia Costiera Libica che ha imposto al comandante dell’Asso 28 di riportare i migranti in Libia».
La lettura delle motivazioni della sentenza, che come di consueto verranno depositate entro tre mesi, chiariranno cosa ha convinto la corte a ritenere il comandante colpevole di avere abbandonato i migranti che pure aveva soccorso a delle autorità di un Paese che le Nazioni Unite non riconoscono come “luogo sicuro di sbarco”. Sia il comandante che il rappresentante della compagnia di navigazione sono stati assolti dall’accusa di abuso d’ufficio. Durante il trasferimento dei migranti verso Tripoli, a bordo della nave italiana ‘ era presentante anche un rappresentante della Guardia costiera libica che – insistevano fonti vicine alla compagnia di navigazione – presidia ogni piattaforma che opera nelle sue acque territoriali e ha gestito l’operazione di soccorso in totale autonomia?.
Nei nastri a disposizione dei magistrati spesso si sente in sottofondo la voce di un altro testimone a bordo della Open Arms. Era il parlamentare Nicola Fratoianni, attuale segretario di Sinistra Italiana. «Ci dissero di avere avuto indicazione di recarsi in Libia – ricorda Fratoianni – per ordine dei loro responsabili sulla piattaforma. Quando alla Asso 28 ricordammo che i respingimenti sono illegali, il comandante ci rispose con imbarazzo, come se costretto a subire un ordine da molto in alto». Il processo, svolto con rito abbreviato, non ha potuto accertare da chi fosse arrivato quell’ordine. E oggi a pagare è il solo comandante.
«Possono inondare il web delle loro farneticazioni, possono diffondere l’odio e i pregiudizi, ma non possono cancellare le norme e le leggi a difesa degli esseri umani e della loro dignità», ha commentato Fratoianni. «Sono contento – ha aggiunto – di quanto ha stabilito la giustizia a Napoli: la solidarietà e l’umanità non sono un reato».

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Così Scavo.

“I razzisti del nostro Paese – ha detto ancora il leader di SI – possono inondare il web delle loro farneticazioni, possono diffondere l’odio e i pregiudizi, ma non possono cancellare le norme e le leggi a difesa degli esseri umani e della loro dignità. Sono contento di quanto ha stabilito la giustizia a Napoli: la solidarietà e l’umanità non sono un reato”.

“Un precedente importante e significativo perché dice chiaramente che non si gioca con le vite delle persone. Lo sappiano tutti: gli armatori delle compagnie di navigazione, le varie Istituzioni italiane ed europee che devono, e spesso non lo fanno, tutelare i più deboli. E lo devono sapere anche i banditi della cosiddetta guardia costiera libica e i loro amici trafficanti”, ha concluso.

Fuoco sui migranti

Sei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana sono stati uccisi dalle guardie libiche in un centro di detenzione a Tripoli, ha detto il capo dell’ufficio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nella capitale libica.

L’incidente è avvenuto in un centro di detenzione “sovraffollato” a Tripoli, dove circa 3.000 migranti sono detenuti “in condizioni terribili”, ha detto all’Afp il funzionario dell’OIM Federico Soda. “Sono scoppiate delle sparatorie e sei migranti sono stati uccisi dalle guardie”, ha affermato.   

Centinaia di persone hanno tenuto un sit-in a Tripoli, in Libia, davanti all’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che questa settimana ha temporaneamente sospeso le sue attività a causa della crescente pressione migratoria. 
 Davanti all’edificio dell’Unhcr decine di migranti e rifugiati, compresi bambini piccoli, dormono per terra da diversi giorni nella speranza di essere assistiti .

“Per la nostra sicurezza, chiediamo di essere evacuati”, è scritto su uno striscione. “La Libia non è un Paese sicuro per i rifugiati”, si legge in un altro.  Lo scorso fine settimana le autorità libiche avevano lanciato un raid in un povero sobborgo della capitale libica, Tripoli, dove vivono principalmente migranti e richiedenti asilo, arrestando quasi 5.000 persone ma anche causando un morto e almeno 15 feriti secondo l’Onu. L’operazione era stata svolta ufficialmente in nome della lotta al narcotraffico. 
 “Siamo al capolinea”, afferma una donna fuggita da uno dei tanti centri di detenzione teatri di violenze e maltrattamenti. 
 “Ci hanno attaccato, umiliato, molti di noi sono rimasti feriti”, ha detto. “Siamo tutti estremamente stanchi. Ma non abbiamo un posto dove andare, veniamo addirittura cacciati dai marciapiedi”.  Secondo l’Oim “ci sono quasi 10.000 migranti intrappolati in difficili condizioni nei centri di detenzione libici”. L’agenzia Onu conferma poi l’uccisione, ieri, di 6 migranti durante un tentativo di fuga. Secondo un sottosegretario libico – riferiscono i media locali – circa duemila migranti sarebbero riusciti a fuggire. 
Il report di Medici senza Frontiere 

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Il numero di migranti e rifugiati trattenuti nei centri di detenzione a Tripoli è drammaticamente più che triplicato negli ultimi cinque giorni.

Forniamo cure mediche in tre centri della capitale libica e siamo profondamente turbati da questo aumento, un diretto risultato di cinque giorni di arresti di massa di migranti e rifugiati, inclusi donne e bambini, cominciati lo scorso 1° ottobre.

Negli ultimi tre giorni, almeno 5.000 persone sono state rastrellate intorno a Tripoli dalle forze di sicurezza governative. Secondo i racconti, molte delle persone sono state prese all’interno delle loro abitazioni e sottoposte a gravi violenze fisiche, compresa la violenza sessuale.

Secondo le Nazioni Unite, un giovane migrante è stato ucciso e almeno altri cinque hanno riportato ferite da arma da fuoco.

“Stiamo vedendo le forze di sicurezza adottare misure estreme per detenere arbitrariamente più persone vulnerabili all’interno di strutture gravemente sovraffollate e dalle condizioni disumane. Intere famiglie che vivono a Tripoli sono state fermate, ammanettate e trasportate in diversi centri di detenzione. C’è chi è stato ferito e chi persino ha perso la vita, mentre diverse famiglie sono state divise e le loro case ridotte in cumuli di macerie”, denuncia Ellen van der Velden, responsabile operazioni Msf in Libia.

“L’insicurezza causata dai raid  – rimarca il Rapporto – non ci ha permesso di operare con le cliniche mobili che settimanalmente offrono cure mediche ai migranti e rifugiati vulnerabili in città.

I raid hanno anche avuto un impatto sulla capacità delle persone di muoversi liberamente e cercare assistenza medica, anche perché chi è sfuggito all’arresto ha paura di uscire di casa.

Gli uomini della sicurezza armati e mascherati hanno fatto irruzione nella casa dove vivevo con altre tre persone. Ci hanno legato le mani dietro la schiena e ci hanno trascinato fuori di casa. Abbiamo supplicato per avere almeno il tempo di raccogliere le nostre cose, ma non ci hanno ascoltato. Alcune persone sono state picchiate sulle gambe e hanno riportato fratture. A me hanno colpito alla testa con il calcio di una pistola e ho riportato gravi ferite. Un dottore (in seguito) ha dovuto suturare la ferita. Gli uomini mascherati ci hanno fatto salire a bordo di veicoli e poi ci siamo trovati nel centro di detenzione di Al Mabani (Ghout Sha’al). Sono stato lì per quattro giorni e ho vissuto un periodo molto difficile, vedendo persone indifese che venivano picchiate con le armi. Il quarto giorno sono riuscito a scappare. Sono libero ora. Sono libero”, racconta Abdo (nome di fantasia).  

Tutte le persone trattenute sono state portate in centri di detenzione governativi e rinchiuse in celle insalubri e gravemente sovraffollate, con poca acqua pulita, cibo o accesso ai servizi igienici. Affermiamo che dopo la violenza subita durante gli arresti, è probabile che in molti abbiano bisogno di cure mediche urgenti.

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Negli ultimi due giorni, le nostre équipe sono riuscite a visitare due centri di detenzione dove sono trattenute le persone arrestate nei recenti raid: Shara Zawiya e Al-Mabani (Ghout Sha’al).

Nel centro di detenzione di Shara Zawiya, che normalmente trattiene 200-250 persone, i nostri team ne hanno viste più di 550, tra cui donne in gravidanza e bambini appena nati rinchiusi nelle celle. Circa 120 persone erano costrette a dividersi lo stesso bagno, fuori dalle loro celle c’erano secchi pieni di urina. Al momento della distribuzione dei pasti, è scoppiata una grande agitazione, le donne hanno protestato contro le condizioni in cui sono trattenute all’interno del centro.

Nel centro di detenzione di Al-Mabani, i nostri team hanno visto le celle così sovraffollate che le persone all’interno erano costrette a stare in piedi. Centinaia di donne e bambini sono trattenuti all’aperto, senza zone d’ombra o ripari.

Un membro del nostro team ha raccolto la testimonianza di alcuni uomini che hanno detto di non mangiare da tre giorni, mentre diverse donne hanno raccontato di ricevere al giorno un unico pasto composto da un pezzo di pane e formaggio. Molti uomini erano in stato di incoscienza e in necessità di ricevere cure mediche urgenti.

Durante la visita al centro di Al-Mabani, il nostro team ha visto migranti e rifugiati che cercavano di scappare. Il gruppo è stato fermato con una violenza inaudita: membri del nostro staff hanno sentito colpi di arma da fuoco per due volte di seguito e hanno visto un gruppo di uomini picchiati in modo indiscriminato e poi stipati con forza in alcuni veicoli verso una destinazione sconosciuta.

In queste condizioni così tese e con dei tempi molto serrati per le visite, i nostri team hanno curato 161 pazienti, tre dei quali per ferite riportate a seguito di violenze. Hanno anche facilitato il trasferimento di 21 pazienti che necessitavano di visite mediche specialistiche presso le nostre cliniche a Tripoli.

Siamo recentemente tornati a fornire cure mediche nei centri di detenzione di Shara Zawiya, Al-Mabani e Abu Salim a Tripoli, dopo quasi tre mesi di sospensione delle attività a causa di ripetuti incidenti di violenza contro migranti e rifugiati trattenuti nelle strutture. La decisione è stato il frutto di un accordo con le autorità libiche, che hanno fornito rassicurazioni sul rispetto di condizioni di base.

Dopo quanto successo questa settimana, per noi queste condizioni non sono state rispettate.

Invece di aumentare il numero di persone detenute nei centri, bisogna sforzarsi di fermare la detenzione arbitraria e chiudere queste strutture pericolose e inabitabili. Ora più che mai, migranti e rifugiati vivono in una situazione di pericolo e sono intrappolati in Libia senza alternative per fuggire, dato che per la seconda volta quest’anno i voli umanitari sono stati sospesi senza motivo-  aggiunge la responsabile di Msf – Lanciamo un appello alle autorità libiche per fermare gli arresti di massa di migranti e rifugiati vulnerabili e per rilasciare tutte quelle persone trattenute nei centri illegittimamente. Chiediamo con urgenza alle autorità, con il supporto delle organizzazioni interessate, di identificare delle alternative sicure e dignitose alla detenzione e permettere la ripresa immediata dell’evacuazione umanitaria e dei voli di reinsediamento fuori dalla Libia”.

Qualcuno a Roma e a Bruxelles l’ascolterà? 

 

 

 

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