Le nostre scienziate: "Abbiamo cullato il virus e avuto un po' di fortuna"

Sono tre donne, tre ricercatrici italiane le protagoniste dell’impresa dell’istituto Lazzaro Spallanzani.

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3 Febbraio 2020 - 08.13


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Sono tre donne, tre ricercatrici italiane le protagoniste dell’impresa dell’istituto Lazzaro Spallanzani, riuscito a isolare il nuovo coronavirus, passo fondamentale per sviluppare terapie e possibile vaccino, per la prima volta in Europa, la terza volta al mondo. A capo del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani c’è la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi: 67enne nata a Procida, laureata in scienze biologiche e specializzata in microbiologia, dal 2000 lavora allo Spallanzani e ha dato un contributo fondamentale nell’allestimento e coordinamento della risposta di laboratorio alle emergenze infettivologiche in ambito nazionale, nel contesto del riconoscimento dell’istituto quale centro di riferimento nazionale.

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Mentre è una giovane ricercatrice Francesca Colavita, da 4 anni al lavoro nel laboratorio dopo diverse missioni in Sierra Leone per fronteggiare l’emergenza Ebola. E poi Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta ’mani d’orò, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), classe 1963, specializzata in microbiologia e virologia. A loro si aggiungono Fabrizio Carletti, esperto nel disegno dei nuovi test molecolari, e Antonino Di Caro che si occupa dei collegamenti sanitari internazionali.

“Soddisfazione, certo, perché questo non è un fuoco del momento, si tratta di una missione, lavorare sempre per essere pronti a catturare la novità e a rispondere. L’Istituto Spallanzani è stato il primo in Italia a dare una risposta locale, partendo prima con metodi nostri e adottando poi quanto dettato dall’Oms e così abbiamo ottenuto la sequenza del primo frammento del virus, dalla quale abbiamo avuto poi la capacità di fare la diagnosi”. Lo afferma all’Adnkronos Maria Rosaria Capobianchi, direttore Laboratorio di Virologia dell’Inmi Lazzaro Spallanzani e direttore del Dipartimento di Epidemiologia, Ricerca Preclinica e Diagnostica Avanzata.

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“Avere isolato il virus, averlo in mano, vuol dire poterlo coltivare, non solo fare l’acido nucleico, che è solo l’impronta del virus, averlo in vitro vivo e vegeto significa poterlo studiare a fondo. In questo modo si possono capire i meccanismi di patogenesi, – spiega Capobianchi – cioè come fa il virus a causare danno, questo rende possibile identificare i target terapeutici, sipuò quindi studiare la risposta immunitaria. Avere isolato il virus ci permette di affinare gli strumenti diagnostici e quindi di mettere a punto i test sierologici per la ricerca degli anticorpi nelle persone infettate e quindi guarirle”.

Avere il virus “in grande quantità perette di distribuirlo ad altri laboratori e quindi aumentare la capacità di risposta globale. Significa avere la possibilità di studiare la sua biologia, la sua variabilità – continua Capobianchi – ed avere quindi uno strumento per fabbricare e affinare gli strumenti per la diagnosi e per la terapia, nonché per la creazione di un vaccino che credo diversi laboratori stanno già affrontando”.

Arrivare a questo risultato ”è stato possibile anche grazie alla condivisione di dati e informazioni con i diversi laboratori, cosa che la Cina ha fatto da subito, per dare una risposta armonizzata e globale. Con la condivisione dei dati di sequenza, per esempio, è stato possibile disegnare i test molecolari, necessari per l’identificazione dei casi. La condivisione è fondamentale per l’avazamento scientifico e per ottenere risposte più rapide”, conclude Capobianchi.

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“Abbiamo cullato il virus e abbiamo avuto anche un po’ di fortuna”. Non si sente aria di protagonismo nelle parole di Concetta Castilletti, la ricercatrice dello Spallanzani che, insieme al team dell’Istituto, primo insieme alla Francia, ha isolato il coronavirus aprendo la strada alla diagnosi e forse anche ad un vaccino.

Concetta ha 56 anni, due figli grandi e una famiglia che la supporta da sempre, a partire dal marito. “Sono abituati a questo genere di emergenze a casa mia – dice – anche perchè io non mi ricordo una vita diversa da questa. E’ sempre stato così”.

Lo Spallanzani è un centro di eccellenza ed è da sempre in prima linea in questi casi. “Ho vissuto la grande emergenza – dice la responsabile dell’unità operativa virus emergenti che si trova all’interno del laboratorio di virologia dello Spallanzani diretto dalla dottoressa Capobianchi – della Sars, di Ebola, dell’influenza suina, della chikungunya, e insieme ai miei colleghi siamo stati spesso in Africa. E’ un lavoro che mi piace moltissimo e non potrei fare altro. Ma la vittoria è di tutto il team. Eravamo tutti impegnati, tutta la squadra. Abbiamo un laboratorio all’avanguardia, impegnato 24 ore su 24 in questo genere di emergenze”.

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