di Cesare Gigli
Il 28 ottobre del 1922, un insieme eterogeneo e caciarone di persone si diressero verso la capitale Italiana per prendere il potere: era la famosa “Marcia su Roma”, inizio di un ventennio tra i più tragici di storia politica Italiana.
Il loro Capo, Benito Mussolini, non li accompagnava. Era fermo a Perugia, in attesa degli eventi. Eventi che presero una piega inaspettata, e drammatica, proprio la mattina del 28.
Come negli sceneggiati, facciamo un flashback: come si era arrivati a quello che, seppur folcloristico, era comunque un putsch? Come fu possibile che un romagnolo di Predappio, giornalista ex socialista massimalista, ora diventato profondamente di destra, divenne il fulcro dell’Italia – non solo della politica – fino al 25 luglio 1943?
Furono fondamentali due fattori, che seppur politici, erano figli di dissidi sociali molto profondi: l’Italia dopo la Grande Guerra aveva mutato pelle, e faticava a riconoscersi.
Il primo fattore era l’avvento dei grandi partiti di massa in parlamento: Il Partito Popolare di Don Sturzo ed il Partito Socialista erano votati dalle masse, ed erano infatti i primi due partiti Italiani. Il Notabilato, che aveva fino ad allora governato il paese, era per la prima volta in minoranza in parlamento.
Il secondo era l’inesperienza di tali partiti di massa: sia il PPI con le sue due anime, quella conservatrice e quella sociale, perennemente in lotta tra loro, sia il PSI con il suo massimalismo, ed alle prese con la scissione che avrebbe fondato il PCI, erano arroccati su posizioni intransigenti che avevano di fatto bloccato qualsiasi forma di compromesso.
Era naturale, a questo punto, dopo le elezioni del 1919, le prime dopo la guerra, rivolgersi per formare il governo al notabile che più di tutti aveva rappresentato l’Italia in quell’inizio di XX secolo: Giovanni Giolitti, allora però già settantottenne.
Non potendo allearsi con il PSI massimalista (l’ala riformista di Turati era fortemente minoritaria), Giolitti trovò nel PPI un riottoso alleato per governare alla sua maniera: intervenendo il meno possibile sulle diatribe sindacali e lavorando per aggiustare il bilancio, visto che la guerra aveva ridotto la nazione allo stremo finanziario.
Tra il 1919 e il 1921, una serie di scioperi selvaggi paralizzarono l’Italia, con il PSI (non i sindacati, tendenzialmente riformisti, ma il partito) in primo piano. Un dirigente del partito durante uno sciopero a Ferrara, rispose a un prefetto che gli chiedeva di rispettare la sua funzione: «Ma io sono qui per abbatterla».
Giolitti interveniva poco in tali diatribe (ad Agnelli che chiedeva lo sgombero della FIAT occupata, rispose: «Darò disposizione per far bombardare la fabbrica», e di fronte al diniego di Agnelli rispose: «E allora?»), ma capì che era necessaria una svolta più autoritaria, quantomeno di facciata, e decise di rivolgersi al Fascismo, che aveva, nel frattempo, svelato la sua vera faccia: quella reazionaria degli agrari e dei padroni, che cominciarono a finanziare il partito.
Si cominciarono a formare le prime squadracce che assalivano gli oppositori a colpi di manganello e olio di ricino (una purga imposta a forza come atto umiliante). Queste squadre, più che a Mussolini, obbedivano ai RAS locali come Farinacci, Arpinati, Balbo, il futuro duce se ne servì comunque come uno spauracchio per chi si opponeva e come uno strumento che portava ordine nel caos della politica, ormai senza costrutto, dei notabili. Dosava sapientemente bastone e carota per raggiungere il potere.
Che l’Italia del notabilato fosse in agonia, era dimostrato dal fatto che Giolitti a quasi 80 anni era ancora in sella, non potendo trovare nulla di meglio tra alleanze impossibili ed antipatie personali dei vari personaggi (Nitti che disprezzava Giolitti, che disprezzava Salandra, etc.), e come detto i partiti di massa erano arroccati su posizioni di intransigenza che impedivano qualsiasi collaborazione governativa.
Nonostante qualche successo in politica estera Giolitti non riusciva più a tenere il Parlamento, giacché la parte più reazionaria del PPI si era ormai sfilata, e indisse nuove elezioni per il 1921.
Per contrastare le rivendicazioni massimaliste dei socialisti si alleò con il PNF di Mussolini («Sono come i fuochi d’artificio, i fascisti. Fanno tanto rumore ma durano poco», disse, a conferma che ormai non ci “vedeva” politicamente più bene).
I socialisti, la cui componente comunista si era ormai staccata fondando un nuovo partito, confermarono i loro seggi, così come i cattolici. Ma il Parlamento, grazie all’alleanza con Giolitti, vide l’ingresso di 35 deputati fascisti, e con questi il gioco politico sarebbe presto cambiato.
Giolitti, per far fronte alla situazione, chiese i pieni poteri che gli furono rifiutati dalla Camera, e diede le dimissioni. Ma l’aver “liberato” i fascisti fece sì che questi si sentissero ormai liberi di imperversare con azioni violente e “purghe” varie ovunque
L’Italia, stanca di guerre intestine e impoverita da tre sanguinosi anni di guerra che alla fine nessuno, se non una piccola ma rumorosa minoranza, aveva veramente voluto, vide in Mussolini quel “restauratore” e “uomo forte” cui appigliarsi nel momento del bisogno. Un atteggiamento che fa purtroppo parte del DNA di noi italiani, un atteggiamento più da sudditi che da cittadini, purtroppo. I tempi erano quindi maturi per l’ascesa del giovane (aveva meno di quaranta anni) romagnolo al Governo. I successori di Giolitti, Bonomi e Facta, erano brave persone, ma oggettivamente incapaci di reggere la pressione che poneva un movimento come quello fascista.
Terminato il flashback, torniamo al racconto: nell’ottobre 1922, Mussolini si decise a far marciare le sue truppe verso Roma, per assumere il potere dando dimostrazione di forza. La mossa era indubbiamente sovversiva, e Facta chiese al Re di ordinare lo stato d’assedio. Il Re, piccolo e non solo di statura, in un primo momento lo concesse, ma il mattino dopo, insultando Facta, lo revocò. Facta si dimise (il Re gli disse: «a questo punto uno di noi due si deve sacrificare», e Facta: «Vostra Maestà non ha bisogno di dire chi»). Il Governo fu affidato a Mussolini. Il Re, attaccato al trono che lui identificava con la nazione (è a nostro parere questo il fil rouge che caratterizzerà tutta la sua azione politica) aveva paura che Mussolini volesse scalzarlo con suo cugino il duca d’Aosta, che aveva già rilasciato dichiarazioni abbastanza chiare di vicinanza al Fascismo e di attacco alla corona.
Mussolini, una volta insediatosi, nel suo discorso di programma alla Camera («avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli», disse, dimostrando già così la sua considerazione per la democrazia), cominciò a preparare il colpo di mano: le nuove elezioni indette per la primavera del 1924, nelle quali una riforma elettorale appena varata consentiva alla lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti, il 65% dei seggi. Le squadre intanto continuavano a imperversare (in un loro raid vede ucciso don Giovanni Minzoni, un cappellano militare medaglia d’argento al valore), ma il Parlamento continuò a dargli la fiducia.
Il PPI, in particolar modo, fu lacerato. La sinistra di Sturzo votò contro, ma il centro di Degasperi e la destra votarono a favore. Nel 1923 tale situazione di vicinanza con il Partito Popolare portò Mussolini (non ancora duce) a un abboccamento con la santa sede. Il papa, Pio XI, eletto nel 1922 era un accesso anticomunista, e mandò il suo segretario di stato, cardinal Gasparri a negoziare. Una delle cose che mise sul piatto per giungere a un accordo – che sarebbe poi sfociato, nel 1929, nei patti lateranensi – fu la “messa a riposo” di Sturzo, che nel 1923 abbandonò il partito, e fu poi costretto a scappare negli Stati Uniti. Ormai era chiaro chi era e cosa rappresentava Mussolini, e anche ciò che rimaneva del PPI gli aveva voltato le spalle.
Alle elezioni del 1924 Mussolini presentò un “listone” unico, che grazie anche a brogli stravinse le elezioni: 4,5 milioni di voti contro i poco più di 2 delle opposizioni. Nella seduta d’inizio della nuova legislatura, però il deputato turatiano Giacomo Matteotti denunciò formalmente tutti i brogli, rendendoli così pubblici, e Mussolini chiese che a quel Matteotti venisse data “una lezione”. La “ceka”, una squadraccia fascista particolarmente violenta, rapì Matteotti nel giugno del 1924, e di fronte alle sue resistenze lo uccise.
Si è saputo recentemente che Matteotti aveva anche le prove di “tangenti” pagate al PNF dall’impresa inglese Sinclair Oil (il saggio appena uscito “Tangentopoli nera”, di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella racconta in maniera chiarissima il fatto) a Mussolini ed al fratello Arnaldo.
Quando si venne a sapere dell’assassinio di Matteotti, il fascismo sembrò crollare. E sarebbe facilmente caduto, se un’opposizione unita almeno sui punti base avesse preso l’iniziativa politica, ma l’unica cosa sulla quale furono tutti d’accordo fu una condanna “morale”, ispirata dal liberale Amendola, che portò tutte le opposizioni (tranne il PCI) a disertare le sedute d’aula.
Errore clamoroso. Nel silenzio delle opposizioni, lo sdegno si sgonfiò rapidamente (cosa abbastanza comune in Italia) e si poté mettere facilmente a tacere lo scandalo.
Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini da Predappio, futuro Duce dell’Italia, pronunciò alla Camera il discorso che sancì l’inizio della dittatura.
Auguriamoci di non rivedere più quel periodo, ognuno di noi è libero di trovare però analogie tra quanto successo quasi un secolo fa ed oggi.