Arrivano dopo le sei di sera, diretti verso la stazione degli autobus. Giovani, magrissimi, si fermano silenziosi ai bordi della fontana di Proserpina, strabordante d’acqua, intercettando gli sguardi curiosi di una comitiva di turisti asiatici. Per loro, come per decine di migliaia di eritrei giunti sulle coste italiane dal 2013 aoggi, Catania è una tappa fondamentale nel viaggio verso il nord Europa. Un transito che rischia di prolungarsi, facendo impigliare molti, soprattutto i minori, nelle maglie di una rete di trafficanti che, proprio qui, ai piedi dell’Etna, ha un importante snodo operativo.
A raccontarlo è Abraham Tewolde, eritreo di Acireale. Ex guerrigliero per l’indipendenza del suo paese, è oggi impegnato in un’altra battaglia: quella contro i connazionali che, nonostante inchieste e arresti, continuano a lucrare sullo spaesamento e sulla mancanza di informazioni dei giovani eritrei. “Ormai mi conoscono e quando mi avvicino se ne vanno”, racconta, “ma qui i soprusi rischiano di diventare come quelli della Libia; un prezzo salato per chi ha già pagato troppo”. Quasi tutti i giorni Tewolde raggiunge la stazione, cercando, nel suo piccolo, di togliere i migranti dalle mani di chi fa affari sulla loro invisibilità.
IL RICATTO DELL’INVISIBILITÀ
“Tutto è iniziato più di due anni fa: facevo il volontario per Centro Astalli Catania, che poco lontano dalla stazione fornisce assistenza di base ai migranti, e ho visto che arrivavano sempre più eritrei, anche ragazzini di 12-13 anni… mi è bastato fare un giro nel quartiere per capire che qualcuno ne stava approfittando”. Abraham Tewolde descrive i trafficanti come “giovani, al massimo trentenni, arrivati da poco in Italia; persone che già nei centri di prima accoglienza hanno colto l’opportunità di guadagni facili”.
Catania è la base ideale: i porti di Augusta e Pozzallo, principali punti di attracco delle navi di Mare Nostrum e Triton, sono poco lontani, così come il maxi Cara di Mineo, centro di transito e smistamento per migliaia di richiedenti asilo. Gran parte dei 60 mila eritrei arrivati in Italia via mare dal 2013 a oggi è passata da qui, dormendo nei giardini della stazione o nella vicina piazza Repubblica, recentemente sgomberata, in attesa di un treno o un autobus verso nord. “Il problema – spiega Tewolde – è che i ragazzini eritrei non hanno soldi per i biglietti e hanno subito così tante violenze che non si fidano di nessuno: i trafficanti hanno gioco facile, si pongono come amici e garanti del proseguimento del viaggio e i giovani tante volte si fidano più di loro che di me”.
NONOSTANTE LE INCHIESTE, IL BUSINESS CONTINUA
Il meccanismo di base è semplice: per proseguire il viaggio, in autobus o treno, servono soldi. Alla partenza dalla Libia molti vengono derubati e in Italia, senza un documento d’identità, non è possibile ricevere denaro da amici e parenti all’estero. Ecco il primo affare: “i trafficanti danno il proprio nome e ogni 100 euro inviati dall’estero, tramite Western Union, ne trattengono 30”. Anche chi ha soldi, però, arriva a pagare “150 o 200 euro per biglietti dell’autobus che magari ne costano 50: temendo di essere identificati, e quindi obbligati a rimanere in Italia, molti infatti non entrano in uffici, non cercano un medico se stanno male e, naturalmente, non denunciano alla polizia”.
Due anni fa Abraham Tewolde ha invece denunciato, contribuendo a un’inchiesta – la Glauco II – che a aprile 2015 ha portato a 24 ordini di custodia cautelare, affiancandosi all’operazione “Tokhla” (“sciacallo” in tigrino), che ha identificato gli organizzatori materiali di numerosi viaggi dalla Libia. Fra i reati contestati, quello di sequestro di persona: all’interno del Cara di Mineo, così come in appartamenti del catanese, i trafficanti tenevano chiusi per giorni connazionali, in attesa che amici e famiglie inviassero soldi. Il problema, spiega Tewolde, è che “il sistema continua, nonostante gli arresti: pochi giorni fa un ragazzino mi ha detto che era stato tenuto per dieci giorni in uno scantinato a due passi dalla stazione, e solo quando hanno capito che nessuno avrebbe pagato, perché non ha più contatti con la famiglia, lo hanno rilasciato”. In molti però pagano, anche diverse centinaia di euro “continuando, dietro le mura dei palazzi di Catania, quel viaggio degli orrori che hanno già vissuto in Sudan, in Libia e o nel Sinai”.
MINACCE
“Ho parlato con alcuni trafficanti, gli ho detto di lasciar perdere e come risposta ho avuto indifferenza e minacce: mi hanno telefonato dicendo che sapevano dove abitavo e che mi avrebbero ucciso”. Ma, racconta Tewolde, “non mi fanno paura, perché ho deciso da che parte stare”.
Arrivato in Italia poco più che ventenne, a metà degli anni ‘70, Tewolde tornava “ogni estate sui monti dell’Eritrea, per combattere con i guerriglieri dell’Eritrean Liberation Front” fino a quando, a ridosso dell’indipendenza del paese dall’Etiopia, nel 1991, “il mio movimento venne messo da parte da quello di Isaias Afewerki, primo e unico presidente dell’Eritrea, che iniziò a far scomparire tutti quelli che non la pensavano come lui”.
Tewolde divenne, come spiega con un dispiacere ancora vivo, “un cittadino del nulla: non eritreo, non etiopico, non italiano e nemmeno rifugiato”. Una condizione che racconta con ironia: ”pensi che alla commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato ho detto che ero già italiano: mio padre è nato in territorio italiano, quando l’Eritrea era colonia, e ha lavorato per anni in Libia come segretario del generale Graziani, tanto che scriveva meglio in italiano che in tigrino, e io stesso vivo qui da quarant’anni, e ho pagato le tasse anche quando ero irregolare”.
MINORI SENZA TUTELA
Dopo essersi battuto per anni contro le spie del regime, “che si infiltrano anche nei centri d’accoglienza e nelle istituzioni”, Tewolde oggi combatte i trafficanti con il sorriso e la comprensione: “cerco di ottenere la fiducia degli eritrei, di dargli informazioni di base e di spiegare che qui sono liberi, non devono sottostare a ricatti e violenze”. Troppi ragazzini, spiega, “sono però lasciati andare senza nulla dai centri di accoglienza: non sanno dove sono, che diritti hanno, non hanno nessuna protezione”.
Succede così che a Catania, attirati da sedicenti facilitatori, arrivino giovani sbarcati a Messina, a Palermo o in Calabria. “Oggi chiedono soldi, tengono prigionieri, ma in futuro potrebbero fare di peggio…e chi si accorge se un adolescente, che nessuno ha aiutato e identificato, scompare nel nulla? O, come avviene con gli eritrei rapiti nel Sinai, viene venduto per il commercio degli organi?”. I trafficanti hanno il tempo dalla loro: “sanno quando partono le barche, spesso sanno quando e dove arrivano; vede quei dieci ragazzini?”, Tewolde indica i minori seduti vicino alla fontana: “sono appena scappati da una comunità di Messina, e non di propria iniziativa, sicuramente qualcuno è andato a prenderli in macchina”. Il traffico di persone continua, sotto gli occhi di catanesi e turisti, ma – insiste Tewolde – volendo si potrebbe vincerlo”. (Giacomo Zandonini)