Un operaio pakistano che prestava servizio volontario in Croce verde. E che nel tempo libero avrebbe cliccato qualche “like” di troppo su contenuti Facebook riconducibili al jihad. Un saldatore marocchino-brianzolo, adorato da amici e colleghi; il cui legame col terrorismo internazionale si sarebbe invece palesato su twitter, dove esaltava le pretese virtù di giustizia sociale dello Stato islamico e dileggiava i combattenti curdi con l’appellativo di “peshmerda”. Uno studente turco della Normale di Pisa, ragazzo prodigio della fisica dei buchi neri con qualche evidente squilibrio psichico: tra un’equazione differenziale e l’altra, inviava missive ai governi d’Italia e Stati Uniti, minacciando di farsi esplodere e definendosi “jihadista pagano, alla maniera di Nietzsche”.
Ci sono anche loro nell’elenco dei sospetti terroristi espulsi dall’Italia. Che si sia trattato d’isteria o ragion di stato toccherà alla giustizia italiana stabilirlo; ma è certo che il confine tra le due tende ad assottigliarsi quando in ballo c’è la sicurezza nazionale. E se lo studente era considerato quantomeno eccentrico, gli altri due provvedimenti sono stati fulmini a ciel sereno per amici e familiari. Che da un mese ripetono che quei ragazzi sono finiti al centro di un clamoroso equivoco. Se non proprio di un’ingiustizia.
Un fulmine a ciel sereno. A Civitanova Marche, Faqir Ghani ci è arrivato con la famiglia nel 2003, a 14 anni. Nella cittadina maceratese ha stretto amicizie, lavorato in un calzaturificio e si è dedicato al volontariato. I colleghi della Croce verde raccontano che quel ragazzo, che aveva amici di ogni confessione, era diventato un punto di riferimento per loro. “Per i volontari più giovani – ha dichiarato la segretaria Annarita Badalini all’indomani del rimpatrio – era un fratello maggiore: uno di loro è stato qui poco fa e se n’è andato in lacrime.
O non abbiamo capito nulla noi o si è trattato di un grosso errore”. Non la pensavano così al ministero degli Interni, dove il 19 gennaio è stato firmato il decreto d’espulsione. “La polizia lo ha prelevato al lavoro – ricorda l’avvocato Maurizio Nardozza – e in meno di 24 ore era già in Pakistan. Gli atti sono secretati, quindi non sappiamo di cosa sia accusato: da una nota ministeriale sembra che avrebbe condiviso su Facebook materiale legato al terrorismo islamico. Faqir non ha smentito, ma ha respinto ogni simpatia jihadista. È stato un duro colpo per la famiglia, non li ha nemmeno potuti salutare”.
“Reporter di seconda generazione”. Diverso è il caso di Oussama Kachia, marocchino 34enne che da 21 anni viveva e lavorava a Brunello, piccolo centro del Varesotto. A quanto pare l’uomo era molto benvoluto in paese: la mattina del 6 febbraio, il suo datore di lavoro si è precipitato in questura in lacrime, chiedendo lumi sul provvedimento. Agli agenti che lo rimpatriavano, Kachia non ha negato le sue simpatie per l’Is: su twitter ne esaltava le virtù con una veemenza quasi naif, ma più che un militante si è definito “un reporter di seconda generazione”. Per la questura di Varese, al contrario, si tratterebbe di un individuo “potenzialmente plagiabile da soggetti intenzionati ad arrecare pericolo allo Stato Italiano”.
Atti secretati. Sia Ghani che Kachia hanno già annunciato ricorso contro i provvedimenti: “se necessario – ha dichiarato il legale del primo – ci rivolgeremo alla Corte di giustizia europea”. Ma le cose potrebbero non essere così semplici. Secondo Guido Savio, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, lo Stato avrebbe agito nel pieno delle sue prerogative: “L’articolo 13 del testo unico sull’immigrazione e il decreto legge del 2005 per la prevenzione del terrorismo internazionale – spiega – danno al Ministro dell’Interno la facoltà di espellere uno straniero qualora sussistano ragioni di sicurezza.
Si tratta di un atto politico, generalmente utilizzato quando qualcuno viene trovato ‘con le mani nella marmellata’, senza che lo stato abbia però nulla di concreto contro di lui: perché, se le prove ci fossero, va da sé che non lo manderebbero a casa, ma in carcere. Tanto è vero che il ministero, avendo facoltà di secretare gli atti, non è tenuto a produrre prove o capi di imputazione. Un esempio potrebbe essere l’imam che si lancia in sermoni particolarmente virulenti e, pur non avendo infranto la legge, viene rimpatriato”.
“Gli dicevo di non scrivere quelle cose…”. Secondo Savio, provvedimenti di questo genere vengono adottati, in media, “tra le cinque e le dieci volte l’anno”. Solo tra dicembre e febbraio, però, almeno 11 stranieri sono stati espulsi con la stessa procedura: si tratta di asiatici, nordafricani o balcanici che, secondo il ministero, cercavano di raccogliere denaro, proseliti o contatti per il fronte siriano. Ma che, in qualche caso, si sarebbero “limitati” all’attività sui social network: come Usman Rayen Khanein, 22enne pakistano-bolzanino che avrebbe attirato l’attenzione degli inquirenti perché, sul suo profilo Facebook, campeggiava una bandiera dello Stato islamico. O lo stesso Kachia, che le sue filippiche contro i Curdi di Kobane le scriveva in un perfetto italiano.
Non esattamente ciò che ci si aspetterebbe da agenti del terrore in incognito. “Oussama è un testone – sospira A., sorella di Kachia – ma non ha mai pensato di far male a nessuno. Perfino il sindaco ne ha parlato bene ai giornali e di certo non è mai stato un integralista: ha una moglie in Svizzera che non ha mai messo il velo, vivevano come occidentali. Io gli ho detto mille volte di non scrivere quelle cose su internet, ma lui rispondeva che informarsi ed esprimere opinioni era suo diritto. Era in contatto anche con giornalisti e scrittori italiani”.
Il mito delle origini. Tra i contatti facebook di Kachia c’era anche Lorenzo Declich, scrittore, docente universitario e apprezzato studioso del mondo islamico. Che della questione dà una lettura diversa: “Il punto – spiega – è che si rischia di dare una risposta di tipo esclusivamente securitario a un problema che è molto più complesso. L’Isis richiama questi ragazzi a un mito delle origini che in Italia rischia di non trovare un vero punto di rottura, viste le evidenti carenze della legge sulla cittadinanza e delle nostre politiche di integrazione. In altre parole, finché non offriamo loro una vera alternativa, l’estremismo avrà gioco facile nel cercare la frattura tra la società europea e fasce di popolazione più o meno ampie, alle quali non è stata offerta una vera opportunità di integrarsi”.
Ossessionato dalle ingiustizie. Le parole di Declich, appena qualche giorno dopo, sembrano trovare conferma nell’ultimo video propagandistico diffuso da Al Hayat, media center dello Stato islamico, durante il quale due combattenti si rivolgono direttamente ai musulmani delle banlieue francesi: “Loro se ne fregano di voi – tuonano i due – vi umiliano ogni giorno, chiedete la carità, supplicate la disoccupazione e il salario minimo: allora perché seguite i loro costumi?”.
È la stessa sorella di Kachia, in effetti, a raccontare che la parabola conflittuale di Oussama sarebbe iniziata quattro anni fa, “quando nostra sorella – ricorda – venne pestata brutalmente da due teppisti per il solo fatto di portare il velo. Da allora, Oussama ha iniziato a diventare sempre più arrabbiato, ossessionato dalle ingiustizie di cui i musulmani sarebbero vittime. Ha raccolto centinaia di foto di bambini e civili morti nei bombardamenti in Siria”.
L’Olocausto musulmano. A farle eco c’è Mohamed Shain, imam di una delle più antiche moschee d’Italia, quella del quartiere torinese di San Salvario. “Quello che voi non sembrate capire – spiega – è che per i musulmani sunniti ormai la guerra in Siria rappresenta qualcosa di simile all’Olocausto ebraico. Molti fedeli – dice, mostrando immagini di corpi dilaniati da un bombardamento – oggi hanno foto come queste nel cellulare”.
Media e isteria. Che la Siria sia “la madre di tutti i problemi” lo ripete da tempo anche il giornalista Amedeo Ricucci, lunga carriera da inviato della Rai, che alla nascita dell’Isis ha idealmente assistito nell’aprile del 2013, durante la sua prigionia nel nord del paese, quando la brigata qaedista che lo teneva in ostaggio passò sotto il vessillo della nuova organizzazione. “Per tre anni – spiega – i media e la società italiana si sono ampiamente disinteressati di quanto accadeva in Siria: poco o nulla si è detto dei bombardamenti di regime o dei siriani che tornavano in patria per combattere contro Assad, non diversamente da quanto accadeva in Spagna nel ’36.
Il risultato è che, ad esempio, oggi siamo incapaci di distinguere il concetto di terrorista da quello di foreign fighter e non abbiamo gli strumenti per inquadrare il contesto da cui il nuovo terrorismo emerge. Di fatto, l’arrivo del jihad a casa nostra ci ha colti largamente impreparati; e il rischio ora, soprattutto da parte dei media, è di alimentare un clima di isteria che non aiuta, in primo luogo, l’azione delle forze di sicurezza”.
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