“Caro avvocato, condivido la vostra amarezza per la decisione della Corte di cassazione. Mi chiedo cosa ci stiamo a fare, se poi siamo incapaci di rendere giustizia”.
Con queste righe, ieri mattina, un procuratore della Repubblica italiana esprimeva solidarietà all’avvocato Sergio Bonetto, in merito alla sentenza con cui la Corte di cassazione aveva appena ritenuto di ribaltare le sorti del processo Eternit. Bonetto è probabilmente il legale che ha assistito il maggior numero di parti civili durante l’intero iter. La vicenda l’ha seguita fin dai primi anni ’80, quando a Casale Monferrato la correlazione tra mesotelioma pleurico e fibre d’asbesto (eternit) cominciava a farsi evidente. Da allora, ne ha documentati centinaia di casi tra i lavoratori dello stabilimento e tra i cittadini di Casale. Nei primi anni ’90 ha preso parte al primo processo Eternit, conclusosi nel ’94 con un’unica condanna a un dirigente italiano; e a partire dal 2009 ha seguito 500 parti civili soltanto per conto delle associazioni delle vittime. Nel frattempo è stato fondatore di Interforum, un coordinamento di legali che da quattro anni si batte per la creazione di una normativa internazionale contro i crimini industriali. A questo scopo, nel 2012, il gruppo ha preso a raccogliere sentenze, studi e perizie in un database a cui le procure di tutto il mondo potessero attingere per snellire i tempi delle indagini. “Noi cerchiamo di incoraggiare l’azione legale in tutto il mondo, – aveva spiegato il 14 febbraio del 2013, nel primo giorno del processo d’appello – perché solo così sarà possibile ottenere una normativa internazionale”. Per questo, abbiamo voluto chiedergli quali saranno gli effetti della brusca inversione a U con cui la Cassazione ha posto fine al processo.
“Per avere un quadro esaustivo – spiega Bonetto – bisognerà aspettare di leggere la sentenza. In realtà, però, sappiamo già che la Cassazione non nega il disastro ambientale: il punto è che, secondo loro, il reato è da considerarsi concluso a partire dal 1986, l’anno di chiusura della fabbrica. Noi, al contrario, sosteniamo che la conclusione dovrebbe coincidere con la morte dell’ultima vittima accertata”.
E quando potrà accadere questo, presumibilmente?“Se si considera che il tempo di incubazione del mesotelioma arriva fino a 30 anni, a Casale si continuerà a morire d’amianto almeno per altri 15. Finché queste morti continueranno a restare sulla scena pubblica, sarà inevitabile che qualcuno se ne occupi.Vale a dire che la pentola ormai è scoperchiata, e non è certo in questo modo che potrà essere chiusa. Ciò che la Cassazione sta facendo è semplicemente mettere un tappo formale sulla vicenda”.
Eravate preparati a una sentenza del genere?“No. E viene sinceramente da pensare che nemmeno il pubblico ministero lo fosse, dal momento che, in due ore di requisitoria, non ha fatto altro che difendere e convalidare le ragioni della sentenza d’appello, pur criticandola in alcuni aspetti formali. Finché, con un plastico colpo di coda, negli ultimi trenta secondi ha introdotto la cosiddetta questione “del tempo”. Cioè della prescrizione. Chiedendo l’annullamento della sentenza senza possibilità di rinvio, senza degnarsi di aggiungere una sola parola in più. Dopodiché, alla corte sono bastate appena due ore di camera di consiglio per annullare una sentenza lunga ottocento pagine. Siamo a livelli da tribunale speciale”.
Perché, secondo lei?Il punto è che nel diritto ci sono questioni che non sono suscettibili di interpretazioni divergenti. Altre, come questa, lo sono eccome. In questo caso, si è voluta applicare alla lettera una normativa degli anni ’30 a un problema, quello dei cancerogeni, che all’epoca era totalmente sconosciuto. È una questione di interpretazione reazionaria del diritto, qualcosa che accade fin dall’alba dei tempi. I maniaci della forma, nei tribunali, ci sono sempre stati.
E così si torna alla necessità di ottenere una normativa internazionale sui reati industriali. Quanto cambia la vostra battaglia con questa sentenza?Questo dipende dai punti di vista. In Italia non molto, in realtà, perché questa sentenza si limita a passare un colpo di spugna puramente formale. Ormai è assodato che, solo nel nostro paese, l’amianto è la causa diretta di tremila morti ogni anno: paradossalmente, la decisione della Cassazione potrebbe accelerare l’iter per la creazione di una nuova legge su crimini di questo tipo. Sul piano internazionale, la questione è più complessa. Il fatto è che la maggior parte dei paesi del mondo continua indisturbatamente a produrre amianto. In India, Brasile, Russia e addirittura in Canada se ne producono migliaia di tonnellate ogni anno. In Siberia c’è addirittura una cittadina di 70 mila abitanti che prende il nome di Asbest, in onore del materiale con cui è stata edificata. Mentre in Messico, dove i produttori statunitensi si sono trasferiti quando il loro paese li ha messi fuori legge, ci sono medici e ricercatori compiacenti che, nel 2014, credono ancora di poter calmare gli animi con delle teorie pseudo scientifiche: recentemente, a un congresso, un’epidemiologa messicana mi ha mostrato delle dichiarazioni con le quali questi signori arrivavano a sostenere che i loro connazionali, in quando discendenti dei Maya, sarebbero geneticamente immuni alla nocività delle fibre d’asbesto. Il processo di Torino, in questo senso, rappresentava uno spartiacque: per la prima volta, migliaia di decessi da amianto venivano contestati sotto un unico reato, quello di disastro ambientale. Procedere per una serie di omicidi, come saremo costretti a fare ora, non sarà la stessa cosa, purtroppo. Ma noi andremo avanti, in Italia come nel resto del mondo.
Lei si sta occupando di amianto e materiali cancerogeni da oltre 30 anni. Cosa la spinse a iniziare, e cosa è cambiato da allora?
All’inizio degli anni ’80 mi capitò di assistere ai primi processi per l’amianto istruiti da Raffaele Guariniello, che allora era ancora un pretore. Subito dopo andai a Casale, dove iniziava a montare la certezza che tutte quelle morti di cancro – un numero impressionante per una cittadina come quella – fossero da imputare alla produzione di fibre d’asbesto. In città c’era un’atmosfera cupa, surreale: le famiglie attaccavano sui muri dello stabilimento manifesti mortuari che a chiare lettere dicevano che era stato il lavoro in fabbrica ad ammazzare i loro cari. Contemporaneamente, ai quadri Eternit – che a loro volta si sono poi ammalati e morti – venivano distribuiti dei manualetti di disinformazione di massa, con tanto di prontuario di risposte da dare a eventuali domande scomode da parte dei giornalisti. Senza volerli giustificare, credo ci sia bisogno d’inquadrare la mentalità dell’epoca per comprendere la compiacenza di molti di loro: l’interesse economico, semplicemente, finiva spesso per prevalere su quello alla salute. C’era la diffusa convinzione che quella fosse una grande impresa, che dava migliaia di posti di lavoro, e che rientrasse nel pubblico interesse difenderla. Oggi tutto questo è inconcepibile: c’è un registro nazionale dei mesoteliomi, ci sono procure che si stanno specializzando nei crimini industriali e nelle morti sul lavoro. E soprattutto, almeno in Italia, nessuno è più disposto a farsi avvelenare per portare il pane in tavola. (ams)