C’é una vecchia, struggente canzone popolare siciliana che racconta il dialogo tra due amici. Uno dei due sta prendendo la nave per l’America e l’altro gli chiede cosa porta in valigia. “Dentro c’é la mia casa, ci sono le strade del mio paese, c’é la piazza, ci sono le feste popolari”, risponde l’amico in partenza. In realtà nella valigia ha solo pane e pasta, e due stracci. E nel vuoto del cartone davvero ci può essere tutto, anche una piazza.
Quando un popolo attraversa questi grandi eventi come fu l’emigrazione di massa e forzata, quando la povertà ha disintegrato comunità intere e svuotato i quartieri, quando hai salutato dalla banchina la nave che parte, sventolando il fazzoletto fino a quando può essere visto da chi non vedrai mai più, quando intere famiglie hanno vissuto il dolore di una lettera che comunica un lutto lontano, capisci bene che nel dna di quel popolo entra qualcosa dentro che non c’è bisturi che possa espiantare: é la solidarietà. Quella che é venuta fuori qualche giorno fa, in spiaggia, in Sicilia, con i bagnanti che han fatto una catena umana per portare a riva uomini, donne e bambini stremati dal viaggio e ancor prima dalla guerra. Bene ha fatto il Presidente della Repubblica a prendere carta e penna per ringraziarli. Non é più tempo di onorificenze, e nel passato si sono date insegne di Cavaliere della Repubblica al primo che passava, scippava qualcosa e provava a fuggire o sfuggire ( alla giustizia ). Per questo, niente onorificenze,basta il riconoscimento che il Capo dello Stato ha voluto dare a quella comunità siciliana.
In Sicilia e in Calabria, intanto, continuano gli sbarchi, approdano a centinaia. E le notizie che arrivano dalla Siria e dall’Egitto ci suggeriscono che arriveranno tanti altri uomini, donne e bambini. Occorre una diversa e più grande catena umana. Che non parli solo italiano.
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