“Il 19 luglio, quel 19 luglio avevo 21 anni. Ero studente universitario, e di notte avevo sognato ciò che il pomeriggio di quel giorno, inesorabilmente, si verificò”. Qualche anno fa, Manfredi Borsellino, accettò di scrivere un ricordo personale del padre raccogliendo il mio invito, per Primo Piano del TG3. Accettò per amicizia, vincendo la sua ritrosia, lo fece anche per riconoscenza, per il lavoro che facevamo sul binario demodé della legalità e dell’antimafia. Scrisse così di quella pagina tristissima della sua vita: un 19 luglio che cambiava la vita del giovane Manfredi, la vita della mamma e delle sorelle, che, con una sterzata violentissima cambiava il corso delle cose nel Paese.
Manfredi Borsellino ora è un uomo, serio dirigente di polizia, inguaribilmente riservato, intelligente. Recentemente lo avevo visto in campo, a Palermo, per la partita del cuore in occasione del ventesimo anniversario della strage di via d’Amelio. Una sera fredda e di vento che non aveva scoraggiato migliaia di giovani, arrivati a Palermo in nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I giovani sugli spalti, e lui in campo, nella squadra dei magistrati, quasi ad occupare, accanto a Pietro Grasso ed altri, un posto che avrebbe potuto ricoprire il padre Paolo, se vivo e se voglioso di tirare calci al pallone, come aveva fatto da bambino, con Giovanni, in uno spazio della città dove le scarpe dei ragazzi sollevavano nuvolette di terra rossa.
Giocava bene Manfredi, e avrei voluto chiamarlo per dirglielo. Poi, la ricorrenza ha premuto il dito sul lutto e ho preferito non chiamarlo. Oggi che sono passati altri sei anni, nel ventesimo della strage di via d’Amelio, ho ripreso quella sua testimonianza, in un anniversario carico di tensione, per le polemiche tra Quirinale e magistrati palermitani, per le intercettazioni raccolte sull’ardita strada che dovrebbe portare alla verità.
In “Paolo, Mio Padre”, questo il titolo dell’intervento firmato da Manfredi Borsellino, Manfredi ricordava: “Un attentato nel cuore della mia città: fumo, sirene, corpi dilaniati e poi, d’un tratto, un silenzio assordante. Quello stesso silenzio che mi accompagnò sino all’ arrivo in via d’Amelio, quando il corpo, o ciò che ne era rimasto, di mio padre e dei suoi agenti di scorta era stato già rimosso. Di quel silenzio – continuava il ricordo di Manfredi – che mi è rimasto dentro impresso più di ogni altra cosa, la mia famiglia si è voluta poi circondare, chiudendosi in quello che è stato ed è un dolore privato che non merita di essere reso pubblico”.
In realtà, è stata la mamma di Manfredi a ricordare e a raccontare ai magistrati di incontri di Paolo, importanti per capire il perché delle stragi, i passaggi della presunta, maledetta trattativa- “Dopo le stragi, la ribellione della gente – scriveva Manfredi – mi chiedo come possa ancora esserci chi con la cappa mafiosa, che soffoca e inaridisce la nostra terra, convive e vuole fortemente conviverci come se non riuscisse a farne a meno”. “È difficile, difficilissimo, esprimere a parole quel dolore – continuava Manfredi, pensando anche agli agenti della scorta uccisi in via D’Amelio nel ’92 – di cui siamo stati così faticosamente in questi anni custodi”.
Poi, Paolo Borsellino visto da Manfredi: “Il rigore morale lo indusse a rinunciare alle amicizie in cui aveva creduto, ma che avevano disatteso quegli ideali in nome dei quali è stato pronto a sacrificare la sua vita. Ho perso un padre per aver svolto fino alla fine nient’altro che il suo dovere di magistrato e di servitore dello stato. Sono orgoglioso e onorato di essere suo figlio, vorrei che un giorno tanti giovani siciliani potessero dirsi altrettanto orgogliosi dei loro padri”. Dal 19 luglio 1992 al 19 luglio 2012. All’appello manca una agenda rossa e l’elenco dei mandanti. Forse basterebbe l’agenda rossa, forse basterebbe quel passo in avanti dei magistrati. Perché loro hanno capito, come aveva capito Giovanni, come aveva previsto Paolo.
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