La Santa Sede sceglie l'ancien regime
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La Santa Sede sceglie l'ancien regime

Il Papa nomina 22 nuovi cardinali, ma non c'è nessun vescovo delle diocesi africana e dell'America Latina fra i nuovi porporati. E' la Chiesa dell'ancien regime.

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8 Gennaio 2012 - 00.18


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di Francesco Peloso Alla quarta ondata di nomine cardinalizie del suo pontificato, Benedetto XVI definisce in maniera pressoché definitiva il volto della sua Chiesa. E, a sorpresa per un Pontefice tedesco, l’istituzione universale per eccellenza torna a parlare italiano. Venerdì mattina infatti, il Papa ha prima presieduto una lunga celebrazione per l’epifania nella basilica di San Pietro, quindi ha annunciato – al termine del tradizionale Angelus del 6 gennaio – la nomina di 22 nuovi cardinali. Di questi ben 18 sono ‘elettori’, hanno cioè diritto di voto in conclave perché di età inferiore agli 80 anni.

E del resto è proprio questo il gruppo che conta: vale a dire il nucleo composto da poco più di cento porporati che deciderà il volto del futuro leader della Chiesa cattolica. Ben 7 dei nuovi ‘principi della Chiesa’ sono italiani e 6 di loro fanno parte della Curia romana. L’Africa è stata esclusa del tutto, l’eurocentrismo conservatore di Ratzinger saldatosi alle esigenze di potere del cosiddetto “partito romano”, ha dato l’ultimo colpo all’universalità della Chiesa: Africa e America Latina, i continenti dove il cattolicesimo è ancora vivo e vegeto e addirittura fiorisce, sono state escluse dalla girandola di nomine, berrette rosse, dignità cardinalizie e onorificenze varie. E’ l’ancien regime che prova a chiudere la porta al futuro con una nuova restaurazione.

Nello stesso giorno in cui all’Angelus il Papa ha evocato, una volta di più, la crisi di una civiltà occidentale che ha “smarrito l’orientamento e naviga a vista”, il sacro collegio cardinalizio è stato blindato definitivamente entro le mura della vecchia Europa. In particolare, poi, il pacchetto di maggioranza dei possibili voti in conclave, resta sempre più saldamente in mani italiane; i cardinali del nostro Paese controllano infatti, oggi, 30 voti e l’Europa nel suo insieme 67 su 125 cardinali elettori. Per altro complessivamente, gli italiani, compresi i non votanti, sono addirittura 52 (sui 214 del totale del sacro collegio). A ciò si aggiungano i 15 cardinali elettori di Stati Uniti (12) e Canada (3) per comprendere quanto l’asse di governo della Chiesa universale si sia spostato a nord.

L’America Latina è ferma a 22 porpore, l’Africa a 11 e l’Asia a 9. Ma nel gruppo di nomine annunciato ieri dal Papa, un altro dato spicca clamorosamente: dei 10 nuovi cardinali di Curia scelti da Ratzinger, tutti quanti hanno meno di 80 anni, vale a dire che, in base alla legge della Chiesa, possono votare per il successore di Pietro. E’ dunque curiale, italiana ed europea la Chiesa disegnata da Benedetto XVI e dai suoi più stretti collaboratori nel corso di questi sette anni di regno. Ha destato scalpore, fra l’altro, che nessuno dei cardinali nominati ieri fosse africano; dopo due viaggi del Papa nel grande continente, la Chiesa più giovane e in crescita del mondo, viene di fatto esclusa dal dibattito sul futuro del cattolicesimo. Nessuna porpora, in linea generale, è andata a una diocesi del sud del mondo. Anche l’America Latina l’area del pianeta dove tutt’ora si concentra il maggior numero di cattolici, ha visto la sola nomina di un brasiliano, Braz de Aviz, in qualità però di capo dicastero vaticano, mentre nemmeno una diocesi del subcontinente americano è stata prescelta per l’importante riconoscimento. Monsignor Timothy Dolan, arcivescovo di New York come il suo collega di Hong Kong, Jonh Tong Hon, sono invece diventati cardinali. Insieme a loro c’è anche un porporato indiano, monsignor George Alencherry, arcivescovo maggiore dei Siro Malabaresi, una comunità radicata soprattutto in alcune regioni dell’India.

Nei commenti raccolti a caldo fra i media cattolici internazionali, emergeva una prima severa valutazione: “abbiamo una chiesa di giovani e di africani guidata da un gruppo di vecchi cardinali europei”. Altrove si metteva in luce il rovesciamento dell’internazionalizzazione della Chiesa voluta da Karol Wojtyla. Resta poi la frattura di questo Papa con l’area latinoamericana apertasi già nei primi giorni del suo pontificato, e che sarà ricucita solo in parte dal prossimo viaggio in Messico e a Cuba.

La sensazione dominante fra gli osservatori rispetto al pontificato, è infatti quella di una diffidenza latente di Benedetto XVI verso le chiese di più recente tradizione, e poco importa se il numero di fedeli e la qualità della fede è decisamente superiore rispetto al desolante quadro del vecchio continente. Si tratta di una sfiducia di natura teologica che muove le mosse da una visione del cristianesimo – per altro ampiamente dichiarata in pubblico – inseparabile dalla cultura europea e greco-latina; ogni forma di irradiazione e inculturazione della fede, sembra così contenere elementi potenzialmente pericolosi per l’unità dottrinaria della Chiesa. E’in tale prospettiva del resto, che Benedetto XVI annunciò, appena eletto, il proprio programma di governo: riportare la fede in Europa.

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