Quando i media giustificano il carnefice che massacra moglie e figli
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Quando i media giustificano il carnefice che massacra moglie e figli

E' una costante: l'uomo che fa una strage, poi si toglie la vita è sempre "una brava persona". E ad armarlo è il terrore di perdere la sua famiglia mentre le vittime vere spariscono dalla narrazione

Carignano, la villetta della strage
Carignano, la villetta della strage
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10 Novembre 2020 - 12.14


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Forse basterebbe capire da che parte stare. O almeno provare a raccontare evitando la trappola del pregiudizio pesantissimo, dello stereotipo reiterato, della violenza continua, costante. Che i media parlino di stupro, violenza, femminicidio e perfino stragi familiari c’è spesso uno squilibrio sconcertante, perfino volgare tra vittima e carnefice.
L’ultimo carnefice, in ordine di tempo, si chiamava Alberto Accastello. A Carignano, in Piemonte, all’alba dell’8 novembre, armato di pistola, ha ucciso la moglie Barbara, il figlioletto di due anni Alessandro e perfino il cane. Ha fatto fuoco anche contro l’altra bimba della coppia, Aurora, che è in condizioni disperate. Poi si è tolto la vita.
Nel raccontarci questa tragedia il Corriere della Sera riporta la testimonianza dei vicini, immancabili nella narrazione del dramma. Leggiamo per scoprire che Accastello “era un gran lavoratore, viveva per la famiglia. La moglie Barbara voleva separarsi, ma il marito non accettava la sua decisione. Ultimamente le liti tra loro sarebbero state frequenti. Lui «lavorava anche al sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito — continuano i vicini —. Alberto era una persona tranquilla. Sempre attento e gentile. Evidentemente la prospettiva della separazione lo ha sconvolto. Aveva chiesto a Barbara un’altra possibilità, ma lei diceva “quando dico di no è no”. L’abbiamo vista ieri sera era tranquilla, anzi euforica».
Sintesi: Accastello, brav’uomo, diventa pazzo quando la moglie Barbara gli chiede la separazione. Lei è “euforica”, “quando dice no e no” e tanto basta per far scattare la mattanza.
Oltre alle testimonianze dei vicini non esiste contraddittorio in questo articolo pubblicato dal quotidiano più importante d’Italia. E’ un’equazione miserabile che confonde i piani, i ruoli. Chi è vittima, chi è carnefice? La strage della “persona tranquilla” sconvolta dall’eventualità della fine del rapporto è, in pratica, giustificata.
Accade quasi sempre così. Se ti stuprano te la sei cercata (il vestito troppo corto, sei uscita di notte, hai bevuto), se ti ammazzano anche. Nella sostanza, insomma, il tema dell’articolo non riguarda il terribile gesto in sé, ma la narrazione del fatto. Una narrazione tossica. Nessuna separazione provoca un delitto. Dice bene sul Dubbio Simona Musco: “Applicare ad un tale orrore una attenuante di fondo è solo la conferma che c’è un problema culturale. Quello che magari anche in maniera inconscia – ma molto più spesso assolutamente consapevole – accetta le logiche del patriarcato, del possesso, della riduzione della donna e dei bambini ad oggetti che esistono solo in relazione al loro rapporto col marito/padre e della famiglia come unità inscindibile, da salvaguardare ad ogni costo”.
E’ già successo, stesso taglio, medesima interpretazione.
7 giugno 2020. Lecco. Un uomo, Mario Bressi, uccide strangolandoli i due figli gemelli di 12 anni. Poi si toglie la vita.
Titoli:
“L’uomo ha commesso l’omicidio perché non poteva sopportare l’idea della separazione” (Ansa)
“Separazione difficile, uomo uccide i due figli e si toglie la vita” (Tg Com).
“Il dramma dei papà separati”. (Il Mattino)

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Morale: di chi è la colpa? Di un assassino o della separazione, ergo della donna che l’ha chiesta?

E’ un crinale pericolosissimo quello che i media in Italia, anche i più autorevoli, attraversano con la leggerezza degli incoscienti, talvolta dei complici.
Nel caso di Accastello la strage è totale, in quella compiuta a Lecco c’è perfino un elemento devastante in più. Mario Bressi non uccide la ex moglie Daniela Fumagalli ma di fatto la condanna all’eterna consunzione, al pubblico ludibrio, al giudizio infame. E’ una condanna a morte in contumacia.
Colpa, è colpa tua. Come si sopravvive alla colpa di essere la ragione di un gesto così devastante? Come si sopravvive alla morte dei figli provocata da un incidente, una malattia, figuriamoci da quella ideata e realizzata dall’uomo che avevi scelto per amore? Esistono gli orfani, le vedove, i vedovi. Come si chiama un genitore, una madre, che subisce la morte di un figlio? In molte lingue non c’è parola. In sanscrito si dice vilomah, significa “evento avverso all’ordine naturale”.

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Potremmo citare altre decine di casi.
La semantica della violenza ha sempre una base linguistica. Le parole fanno male. Malissimo a volte. I professionisti dell’informazione dovrebbero saperlo e invece non si sottraggono alla lapidazione, al pregiudizio, agli stereotipi. Parte di un Tribunale che ha già scelto da che parte stare, chi condannare.  

Il 3 settembre del 2017 Lucio Marzo, anni 17, ammazza a pugnalate Noemi Durini, anni 16, in un paese in provincia di Lecce. La seppellisce, agonizzante, sotto un cumulo di pietre in aperta campagna. Dieci giorni dopo confessa. Il 14 settembre il Corriere titola “Il fidanzatino sotto torchio confessa: l’ho uccisa io”. Sommario del pezzo: “Chi poteva pensare a una violenza tale da togliere la vita al suo amore?”.

Di che amore parliamo, scusate? Ripeto: chi è la vittima, chi è il carnefice?
Quando il femminicidio avviene tra le pareti domestiche (nel 2019 le vittime sono state 73. A settembre 2020 siamo già a 53, e mancano 3 mesi alla fine dell’anno) la titolazione è perfino più subdola, una sovrabbondanza di termini che di fatto giustificano il massacratore.
Eccoli: 
raptus
raptus di gelosia
passione
paura dell’abbandono
aveva il terrore di perderla
la donna della sua vita
amore tormentato
amore malato
perdita di controllo

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Guardate, basta digitare su Google “uccisa per gelosia”, 211mila risultati in 50 secondi.
Il meccanismo è sempre lo stesso: rendere le vittime invisibili, portare le donne sul banco degli imputati, reiterare la colpa di chi colpe non ha nel chiedere una separazione. Sono codici linguistici pericolosissimi, tanto da indurre il lettore/la lettrice a ricercare particolari morbosi sulla vittima tali da spiegare la gelosia dell’uomo, e in fondo a motivare l’accaduto in virtù del terribile e ingestibile raptus.
All’interno del Codice deontologico dei giornalisti esiste il Manifesto di Venezia, settembre 2017, fortissimamente voluto da Giulia, il collettivo di giornaliste nato nel 2011 con l’obiettivo di modificare lo squilibrio informativo sulle donne anche utilizzando un linguaggio privo di stereotipi e correttamente declinato al femminile.
Tre anni dopo è cambiato poco, purtroppo. Quasi nulla.

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