Perché la convergenza sui vaccini potrebbe riaprire nella Chiesa un confronto nuovo sull’aborto
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Perché la convergenza sui vaccini potrebbe riaprire nella Chiesa un confronto nuovo sull’aborto

La più importante rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, si occupa anche di questo aspetto in un ampio studio sulla questione vaccini, e anche sulla possibile obbligatorietà per alcune categorie

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Riccardo Cristiano Modifica articolo

18 Febbraio 2021 - 21.09


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L’aborto è un’ideologia? E’ tale sia per chi ritiene l’aborto un diritto -tesi  ardua da sostenere- come per chi sempre nega -tesi altrettanto ardua- come possibile necessità quella terapeutica? Forse la discussione sull’utilizzo dei vaccini, contro la rosolia tempo fa e oggi contro il Covid-19, ci sta offrendo la possibilità di una discussione  grazie alla questione, fortunatamente respinta, posta nel mondo cattolico da chi nega la  liceità di questi vaccini, per i quali si usa una linea cellulare tratta da feti abortiti e disponibile dagli anni Settanta.

La più importante rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, si occupa anche di questo aspetto in un ampio studio sulla questione vaccini, e anche sulla possibile obbligatorietà per alcune categorie. Ma il punto che qui interessa affrontare deriva dalla questione delle cellule di feto abortito, questione che è stata affrontata, e risolta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Qui dunque proveremo a presentare la tesi espressa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e alcune possibili derivazioni che appaiono evidenti, almeno alla mia personale valutazione.

L’articolo, di padre Carlo Casalone, illustra con precisione i due pronunciamenti della Congregazione. 
“Il primo documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (CdF) esamina un problema molto specifico, ma già da tempo discusso, soprattutto nell’ambito della comunità ecclesiale: l’uso di vaccini nella cui produzione si impiegano linee cellulari estratte da tessuti di feti abortiti volontariamente. Un problema sollevato anche per alcuni vaccini somministrati in età pediatrica: anzitutto quello contro la rosolia, ma poi anche quelli contro l’epatite A e la rabbia. In particolare è sotto accusa una linea cellulare (HEK293) ottenuta nel 1973 a partire dal tessuto renale dei resti di un aborto avvenuto in Olanda. Non è nota l’identità dei genitori né le ragioni precise dell’interruzione della gravidanza, che sembra comunque non avere legame con l’obiettivo di preparare linee cellulari per i laboratori.

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Alcuni vaccini anti-Covid utilizzano tale materiale biologico in una o più fasi della loro preparazione. Quelli già approvati in Usa e in Europa, prodotti da Pfizer-BioNTech e Moderna con la tecnologia del RNA messaggero, non usano tali linee cellulari per la produzione, ma solo per alcuni test di verifica. La Nota della CdF ribadisce quanto già affermato in una precedente Istruzione, dove si precisava anzitutto che non si può giustificare l’aborto volontario, neanche per motivi di salute (pubblica): sia l’estrazione di linee cellulari per preparare vaccini sia la loro distribuzione e commercializzazione sono, in termini di principio, moralmente illecite.

L’Istruzione tuttavia nota che «all’interno di questo quadro generale esistono responsabilità differenziate, e ragioni gravi potrebbero essere moralmente proporzionate per giustificare l’utilizzo del suddetto materiale biologico. Con riferimento alla situazione attuale, poi, la CdF spiega i motivi e le condizioni a cui «è moralmente accettabile utilizzare i vaccini anti-Covid-19 che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e produzione». L’argomento a cui si ricorre per sostenere questa posizione è quello che differenzia le modalità possibili di cooperazione con un’azione moralmente illecita compiuta da altri. Il principio è di grande interesse, perché è uno strumento concettuale che la tradizione della teologia morale ha elaborato per affrontare la complessità del decidere umano, che non avviene mai in uno spazio astratto, ma sempre intrecciato con l’agire di altri soggetti e in circostanze composite”.
Sono parole importanti.

L’esemplificazione migliore per capire è un caso drammatico che ha sconvolto il mondo cattolico. Una bambina brasiliana di nove anni rimase sorprendentemente incinta di due gemelli per le violenze del patrigno,  che ne abusava. I medici la fecero abortire anche per la sua incredibilmente giovane età; escludevano che avrebbe potuto portare a termine la gravidanza. Ma il vescovo competente, quello di Recife, ne chiese la scomunica. Voci autorevoli in Vaticano respinsero questo metodologia, anche con articoli apparsi sull’Osservatore Romano: per loro la prima preoccupazione doveva essere quella povera bambina. Fecero bene? No. Fecero male per le successive deliberazioni chieste e ottenute dal vescovo, sostenuto dal Movimento Pro Life, che ottenne un pronunciamento della Congregazione:  non la dovevano far abortire, la scomunica per familiari e medici era dovuta, la dottrina non cambia!

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Ma la richiesta di amore per quella bambina in via preventiva non aveva a che fare con l’aborto come categoria astratta, ma con il suo dramma! Suo, di sua madre e forse anche dell’episcopato brasiliano. E’ a questo che mi è venuto spontaneo pensare leggendo l’articolo di Civiltà Cattolica e quel riferimento alla “complessità del decidere umano”.  Forse le intenzioni dell’autore non erano queste, ma l’effetto su di me è stato questo. 
Ma procediamo nella lettura: “Nel nostro caso, occorre prendere in considerazione il fatto che la cooperazione con l’aborto del 1973 è materiale, passiva e remota. Sono termini che designano condizioni ben determinate. Anzitutto, la cooperazione è materiale quando non si condivide l’intenzione di chi ha compiuto l’azione principale: in questo caso l’uccisione, che si presume deliberata, di un innocente”. Anche nel caso di Recife la richiesta di anteporre l’amore per la bambina non condivideva intenzioni, ma ne capovolgeva la priorità. Proseguiamo ora nella lettura.
“In secondo luogo, è passiva. Infatti, non si partecipa attivamente allo svolgimento dell’atto, cosa peraltro impossibile, dato che l’evento è accaduto in un lontano passato, e – aspetto importante da ricordare, perché talvolta equivocato – non si richiede la ripetizione di altri aborti: per la preparazione dei vaccini si utilizzano infatti cellule già disponibili nei laboratori dagli anni Settanta-Ottanta. In terzo luogo, quindi, l’azione che si compie è remota, cioè distante nel tempo e periferica riguardo al nucleo di significato del comportamento a cui ci si riferisce. Questi criteri possono aiutare a situare e differenziare anche le responsabilità di altri soggetti che intervengono nell’iter richiesto dalla ricerca e dalla preparazione dei vaccini. Come si vede, la valutazione morale dell’aborto volontario rimane negativa e si deve scongiurare ogni percezione di complicità con esso (evitando così di dare scandalo), impegnandosi nella ricerca di vie di produzione che impieghino altro materiale biologico. Ma, in mancanza di alternative e per la gravità della situazione, l’uso di questi vaccini viene considerato lecito”.

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Questo è il secondo punto di estremo rilievo consentito dal nostro parallelo: nel caso di Recife la gravità della situazione e la necessità di esprimere amore per quella sventurata bambina, che per alcuni doveva diventare madre a nove anni, non richiedeva di essere considerata? E’ la questione della realtà di quella bambina a meritare di essere considerata per valutare la necessità terapeutica, non la dottrina. Come non ha posto in discussione il principio del “non uccidere” chi ha distinto tra omicidio colposo, preterintenzionale e intenzionale, così credo si dovrebbe procedere per riaprire questo capitolo decisivo rivalutando, tutti insieme, l’aborto terapeutico e le sue modalità.   

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