Caro Pierangelo,
quando, appena un anno fa, i funzionari della tua casa discografica mi portarono il tuo primo disco, lo accolsi con diffidenza perché temevo si trattasse del solito cantautore intimista, costruito in serie su versi e melodie standardizzati, sullo stampo di Baglioni o di Battisti. Invece mi colpì subito la tua voce “vera”, il tuo modo proletario di cantare. Pensai che se gli anni Cinquanta (invece delle Nille, dei Cinici e degli Achilli) avessero espresso un cantore più attento al mondo e alla gente, quello avrebbe potuto chiamarsi Pierangelo Bertoli. Qualcuno dice che sei un artista “datato” e non sa di farti un complimento, individuandoti in un mondo di gente senza data, senza tempo, senza passato e, soprattutto, senza avvenire. Tu, invece, un avvenire lo hai certamente, perché hai un passato, che è quello non soltanto della nostra prima giovinezza personale ma anche quello della nostra Repubblica oggi poco più che trentenne. Se mi avessi chiesto un titolo per questo tuo nuovo disco, ti avrei suggerito di chiamarlo “Scelba” perché l’ex ministro dell’Interno, inventore della celere e del manganello, è il simbolo negativo degli anni di cui tu sei un po’ il cantore, come Peppino Di Vittorio ne è il simbolo positivo. Basterebbe accostare le facce di questi due uomini in una sorta di iconografia popolare (l’uno con l’aria da piccolo e gretto impiegato di ministero divenuto capoufficio per una improvvisa fortuna e l’altro con il suo duro viso di contadino cotto dal sole, che ha dovuto addossarsi sulle spalle il peso di tante ingiustizie e di tante miserie) per sintetizzare un’epoca ed anche per ricordare quel tuo operaio di “rosso colore” costretto all’emigrazione da un “governo spaventoso” deve lasciarsi dietro “tante cose da cambiare”. Io me li ricordo bene sai quando tornavano d’estate o a Natale dalle miniere del Belgio, ostentando un benessere immancabilmente tradito dal volto precocemente invecchiato. Come mi ricordo quel ragazzo, figlio di un cugino di mio padre, che rimase sotto la miniera di Marcinelle.
E poi le lotte, le vittorie (quella memorabile del 1953 contro la “legge truffa”: la prima volta che mi ritrovai a ballare e a cantare insieme a tanti altri, giovani e vecchi, uomini e donne, per le strade) e le sconfitte, e le grandi delusioni (l’Ungheria): il tutto culminato quasi a chiusura di un’epoca nelle grandi battaglie di piazza contro Tambroni, di cui tu emiliano, conserverai un ricordo indelebile e senza perdono.
E’ tutto un tempo di cui tu ti fai interprete che non dobbiamo guardare con nostalgia, perché fu un tempo duro, spietato per la classe operaia e contadina, ma con rispetto e interesse perché coltivò con coerenza gli ideali dell’impegno e della lotta che verranno poi seriamente minacciati, nell’epoca del “boom” economico, da quelli che Pasolini chiamò i miti del “materialismo consumistico” e che produssero tanti piccoli uomini, robot e mostriciattoli, che, perduta la loro connotazione di classe, cominciarono ad inseguire “fragili miti creati dal mondo di ieri” e che, come dici tu ne “Il centro del fiume”, hanno scoperto il sesso ma hanno coperto l’amore.
Continua, Pier Angelo. Continua ad essere “datato” e ad inseguire l’utopia del “tempo d’oro”, che forse un giorno si materializzerà dai tuoi e dai nostri sogni. Se continueremo a crederci.
Ciao
Giancarlo Governi