Caso El Masry: ma che vi sareste aspettati da chi bacia le pantofole ad Haftar, al-Sisi e Saied?

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Caso El Masry: ma che vi sareste aspettati da chi bacia le pantofole ad Haftar, al-Sisi e Saied?
Giorgia Meloni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Gennaio 2025 - 17.38


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Ma cosa vi sareste aspettati da chi ha ricevuto in pompa magna, con tanto di banda e ottoni a Palazzo Chigi, un criminale di guerra come fosse un capo di Stato (il generale libico Khalifa Haftar). Cosa pensate avrebbero fatto quelli che hanno continuato a baciare le pantofole di un presidente aguzzino (al-Sisi) i cui servizi segreti hanno rapito, torturato, massacrato a morte un giovane italiano, Giulio Regeni?

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Ma quale concezione del diritto della persona può avere una presidente del Consiglio che ha tessuto le lodi dell’autocrate razzista tunisino (Saïed), colui che ha ordinato alla polizia di deportare nel deserto migranti subsahariani, tra cui donne e bambini, lasciandoli morire di fame e di sete? Ma quale rispetto del diritto internazionale può avere un ministro degli Esteri che ha detto e ripetuto che se un criminale di guerra (Netanyahu) su cui pende un mandato di arresto internazionale da parte della Corte penale internazionale dell’Aja, venisse in visita in Italia non sarebbe arrestato ma trattato con tutti gli onori?

Quanto alla vicenda El Masry non c’è niente di meglio, di più efficace ed esaustivo, che riprendere quanto scritto nel suo blog sul il Fattoquotidiano.it da Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty Italia: “L’Italia ospitò, nel 1998, la conferenza internazionale che diede vita, attraverso quello che per l’appunto si chiama Statuto di Roma, alla Corte penale internazionale. L’Italia ratificò sollecitamente lo Statuto di Roma, impegnandosi dunque tra l’altro a consegnare alla Corte le persone raggiunte da un mandato di cattura.

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Quindi era chiaro cosa avrebbero dovuto fare le autorità italiane nei confronti di Osama Njeem detto El Masry, del cui arresto a Torino è stata data notizia il 20 gennaio: trasferirlo alla Corte penale internazionale. Cosa è avvenuto dopo è noto: il velocissimo ritorno a Tripoli del ricercato, accolto in pompa magna a Tripoli tra esultanze e cori di scherno nei confronti del nostro paese. La brutta figura, un vero e proprio schiaffo alla Corte (che, irritualmente, ha emesso un duro comunicato stampa), si è concretizzata attraverso un cavillo tratto dalla legge 237 del 2012 sulla cooperazione tra l’Italia e la Corte, che stabilisce che le richieste da essa formulate vengono gestite dal ministro della Giustizia, il quale deve trasmettere tali richieste al procuratore della Repubblica di Roma affinché le esegua.

Ciò implica che gli uffici competenti di Torino avrebbero dovuto coinvolgere immediatamente il ministero della Giustizia. Così pare non sia stato fatto. Una mera irregolarità (che nel migliore dei casi potremmo definire frutto di superficialità o mancata conoscenza) nelle procedure di comunicazione interna sulle cose da farsi quando c’è in ballo un mandato di cattura spiccato dal massimo organo della giustizia internazionale.

La rapidità con cui Osama Njeem è stato scarcerato e rimandato nel suo paese d’origine – a bordo di un aereo di stato italiano – non ha lasciato il tempo di correggere quell’irregolarità procedurale interna che, è bene sottolinearlo, non rappresentava in alcun modo una violazione dei diritti dell’arrestato.

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In sintesi, le istituzioni italiane nel loro complesso non hanno rispettato l’obbligo di cooperare con la Corte, come previsto dallo Statuto di Roma. Ne è risultata un’ulteriore delegittimazione della Corte, alla faccia delle persone che hanno subito i crimini di guerra e contro l’umanità contestati a Osama Njeem, tra le quali anche persone migranti e richiedenti asilo.

Il miliziano a capo dell’Apparato di deterrenza per il contrasto al terrorismo e al crimine organizzato, successivamente capo della polizia giudiziaria di Tripoli, dove ha sede il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e con cui l’Italia nel 2017 ha firmato un memorandum di cooperazione, potrà dunque continuare impunemente a svolgere il suo lavoro, che Amnesty International ha ampiamente documentato   nella prigione di Mitiga, nella capitale libica: maltrattamenti e torture, uccisioni illegali, sparizioni forzate e altro ancora.

Ha perso la giustizia internazionale, ha perso la faccia l’Italia, ha vinto la Libia e ha trionfato l’impunità”.

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Così Noury. Non c’è altro da aggiungere. C’è solo da vergognarsi.

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