Migranti, nasce il patto sciagurato Italia-Turchia anti Ong: la destra plaude
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Migranti, nasce il patto sciagurato Italia-Turchia anti Ong: la destra plaude

Dopo il Memorandum infame con la Libia, ecco il patto scellerato con la Turchia.

Migranti, nasce il patto sciagurato Italia-Turchia anti Ong: la destra plaude
Giorgia Meloni e Erdogan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Dicembre 2022 - 16.15


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Dopo il Memorandum infame con la Libia, ecco il patto scellerato con la Turchia. A darne conto è Libero, in totale ed entusiastica sintonia con la linea “securista” e anti Ong portata avanti sui migranti dal governo Meloni-Salvini-Piantedosi. 

Patto scellerato

Scrive Libero: “ Un patto che potrebbe cambiare radicalmente le carte in tavola sulla lotta all’immigrazione clandestina. Italia e Turchia unite per mettere un freno agli sbarchi senza sosta che si sono susseguiti negli ultimi anni. E a sottolineare l’intesa tra Roma e Ankara è arrivato un colloquio telefonico tra Matteo Piantedosi e il ministro degli Interni turco Suleyman Soylu. In base a quanto reso noto dal ministero degli Interni di Ankara, al centro del dialogo c’è stato il contrasto all’immigrazione clandestina e collaborazione tra Italia e Turchia su temi relativi la sicurezza e la guardia costiera. I due avrebbero anche parlato delle crescenti relazioni tra i due Paesi e su come incrementare la collaborazione tra il Viminale e Ankara. E l’intesa tra la Turchia e l’Italia sul fronte migranti era già nata al G20 di Bali nel colloquio tra Giorgia Meloni e il presidente turco Erdogan.  Nel corso del colloquio al G20 Meloni ed Erdogan si sono trovati d’accordo nella necessità di lavorare insieme per contrastare la migrazione irregolare e favorire la risoluzione della crisi libica. Inoltre, si legge in una nota, “hanno condiviso l’auspicio di un ulteriore rafforzamento dei rapporti commerciali bilaterali”.

 E ora l’intesa per un presidio sulle coste potrebbe rappresentare quel passo in più sul fronte della lotta all’immigrazione clandestina. Una collaborazione su un tema così determinante per il Mediterraneo che potrebbe avere conseguenze anche sui “flussi” che arrivano con le navi delle Ong”.

Così il giornale diretto da Alessandro Sallusti. 

Messaggi da Tripoli

 La Libia “non sarà il poliziotto” dell’Europa per fermare le ondate migratorie e si sta coordinando con l’Italia “per sviluppare una strategia mediterranea sul tema della migrazione, attraverso meccanismi chiari”. Lo afferma ad “Agenzia Nova Omar Katti, sottosegretario al ministero degli Affari esteri del Governo libico di unità nazionale (Gun). “Il dossier dell’immigrazione clandestina è complesso, ha molte sfaccettature e necessita di studio e concertazione da parte di tutti i Paesi. Per noi è una questione di sicurezza nazionale”, riferisce Katti. Già da prima del 2011, l’anno della rivoluzione che ha deposto Muhammar Gheddafi, “la nostra posizione è sempre consistita nello sviluppo dei Paesi di origine”, cioè delle nazioni dell’Africa subsahariana, “creando posti di lavoro con progetti finanziati dai Paesi di destinazione”, ovvero dagli Stati europei, “senza collocare i migranti nei Paesi di transito”, aggiunge il sottosegretario. La Libia si considera a tutti gli effetti una nazione di passaggio dei migranti che tentato di raggiungere l’Europa, anche se spesso diventa un Paese di destinazione. Secondo Katti, “i Paesi dovrebbero cooperare fortemente per porre fine” ai flussi migratori illegali, “ma lontano dall’opportunismo, perché questo dossier è sensibile, suscettibile a corruzione e di azioni sbagliate da parte di alcuni Paesi”. Il sottosegretario conferma che con l’Italia è in corso un “coordinamento per sviluppare una strategia mediterranea sul tema della migrazione”.

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Tradotto: se volete riprendere spazio, dovete pagare di più. 

Strategia criminale

Francesca Mannocchi è con Sergio Scandura, Nello Scavo, Alessandra Zinniti e pochi altri, tra i giornalisti italiani più documentati sul fronte migranti e Libia. Documentati e coraggiosi. Scrive Mannocchi su La Stampa: “A ottobre a Sabratha, in Libia, a settanta chilometri dalla capitale Tripoli, sono stati ritrovati i corpi di quindici persone migranti. Alcuni giacevano sulla spiaggia, altri erano carbonizzati accanto ai resti di una barca su cui, con tutta probabilità, stavano cercando di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste europee. A distanza di più di un mese poco si sa sulla dinamica dei fatti, nonostante le richieste dell’Unsmil, la missione di supporto delle Nazioni unite in Libia, che ha condannato gli omicidi, ribadito che la tragedia fosse un «chiaro promemoria della mancanza di protezione affrontata dai migranti in Libia» e chiesto chiarezza e indagini «tempestive, indipendenti e trasparenti».  Non è la prima volta che sulle coste libiche si contano i morti, non sarà l’ultima. Non è la prima volta che le Nazioni unite si appellano alle istituzioni del paese nordafricano, non sarà l’ultima che resteranno lettera morta, perché in Libia di tempestivo, indipendente e trasparente, c’è ben poco. Secondo gli attivisti per i diritti umani e i media libici, le persone migranti sarebbero morte per lo scontro armato tra gruppi di trafficanti rivali, una delle milizie avrebbe dato fuoco alla barca come ritorsione, ennesimo tragico epilogo dell’eterna disputa sul controllo di una delle aree da cui parte il maggior numero di gommoni diretti in Italia, un’area in cui il potere è sempre quello delle armi e dove sono più strette le connivenze tra trafficanti e istituzioni.  Le stesse istituzioni che l’Italia, solo due settimane fa, è tornata a finanziare con il tacito rinnovo del Memorandum d’Intesa del 2017, le stesse istituzioni a cui faceva implicito riferimento il ministro degli Esteri Antonio Tajani quando, intervistato da Lucia Annunziata, ha detto «come si è investito in Turchia così si potrebbe fare in Libia e in altri Paesi da dove partono i migranti». Investire, cioè esternalizzare i confini, cioè pagare affinché le persone non lascino il Nordafrica, pagare non importa chi, non importa quanto, purché si fermino le partenze. Dopo la crisi diplomatica con la Francia sulla gestione della nave Ocean Viking e alla vigilia del Consiglio dei ministri esteri di oggi sul tema immigrazione, Tajani ribadisce la linea italiana: «Non c’è nulla da riagganciare con i francesi, sono loro che hanno reagito in modo sproporzionato». Ricollocamenti, rispetto degli accordi, strategia europea condivisa, cioè «un piano Marshall per l’Africa per non avere in futuro milioni di migranti». 

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Investire dall’altra parte del mare è sempre un buon auspicio. Così come lo sarebbe il principio di «aiutarli a casa loro». Il punto è sempre lo stesso: come. Ovvero, in mano di chi vanno a finire i soldi che escono dalle casse dei nostri Stati, attraversano il mare in direzione contraria a quella delle vite migranti, e su cui, da sempre, non c’è monitoraggio né controllo. Così è con i soldi destinati alla Libia dal Memorandum dal 2017 e così sarà con il tacito rinnovo fino al 2025, nonostante sia ormai chiaro che quegli accordi stiano contribuendo a rafforzare le reti del traffico anziché contrastarle. L’utilizzo dei fondi italiani che arrivano nei centri di detenzione, infatti, non è vincolato a nessun impegno del governo libico, a nessuna garanzia che all’erogazione di soldi e prestazioni corrisponda un miglioramento delle condizioni di vita delle persone migranti. O un impegno a medio-lungo termine sul superamento delle strutture detentive in un paese che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Un sistema detentivo, quello libico, che il Commissario Onu per i diritti umani ha definito «troppo compromesso per essere aggiustato». Lo stesso segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres, dopo una visita nei centri di detenzione, aveva chiesto che i responsabili degli abusi venissero puniti, sollecitando le autorità ad applicare sanzioni contro chi si è macchiato e continua a macchiarsi di crimini contro le persone migranti. Ma l’applicazione della legge, in un paese come la Libia, è vincolata a poteri che spesso poco hanno a che fare con gli impegni dei tavoli bilaterali. Sono quattro anni che il Procuratore generale libico ha emesso duecento mandati di arresto per attività di contrabbando, traffico di uomini, torture, omicidi e stupri. I trafficanti nell’elenco della lista delle sanzioni delle Nazioni unite non sono ancora stati arrestati eppure i nostri soldi continuano ad arrivare e smarrirsi nella nebbia libica, i migranti a essere torturati nelle prigioni, e poi spediti sui gommoni verso l’Europa.  Quindi è troppo facile dare la colpa alle «reti del malaffare dei trafficanti», alle Ong ritenute “push factor” per i migranti nonostante i numeri dicano esattamente il contrario, quando i fondi erogati dall’Europa, l’Italia capofila, hanno contribuito in questi anni a rafforzare le reti del traffico anziché debellarle.  A marzo di quest’anno, dopo l’ennesimo fallimento di un processo di pace che avrebbe dovuto portare ad elezioni, dopo nuovi scontri armati tra milizie nel cuore della capitale, e un’altra giravolta delle alleanze che ha portato a stabilire di nuovo due governi avversari e coesistenti nel paese, le Nazioni unite sono tornate a denunciare gli abusi nei centri di detenzione.  Si legge in un rapporto Onu del 28 marzo che «molti dei centri di detenzione per migranti della Libia rimangono luoghi di abusi terribili e sistematici di crimini contro l’umanità consumati in venti strutture di detenzione, ufficiali e non ufficiali e reti di prigioni segrete che sono presumibilmente controllate da milizie armate». Questo è il contesto da cui le persone migranti fuggono, luoghi di violenze e abusi. Luoghi di violazioni costanti che ostacolano la transizione della Libia verso la pace, la democrazia e lo stato di diritto. Ecco perché le Nazioni Unite continuano a ribadire che i migranti non partano a causa di “pull factor”, ma perché spinti dai “push factor”, ossia proprio quegli abusi di cui sono vittime in Libia. Spinti dalla vita nei centri di detenzione, da cui vogliono fuggire a tutti i costi, pur sapendo che la loro unica opzione sia il mare, e il rischio la morte. Ecco perché le partenze non si arrestano, perché anzi in mare si continua a morire ed è sempre più difficile dare un nome alle vittime. 

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Il 25 ottobre l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha riportato i numeri di quest’anno: sono 5600 le persone morte lungo i confini d’Europa, marittimi e terrestri. Julia Black, l’autrice del rapporto, ha fatto conti e i paragoni. Dal 2014 sono morte trentamila persone lungo le rotte migratorie che portano in Europa. Numeri che ci ricordano alcune cose: la prima è che quando si tenta di chiudere una rotta se ne apre un’altra, basti pensare alle isole dell’Egeo e alle Canarie, la seconda è che i tentativi di esternalizzare le frontiere hanno reso più pericolose e dunque più mortali le rotte che si proponevano di chiudere, la terza è che nonostante continuiamo a contare i morti nell’ordine delle migliaia non esiste un impegno concreto per l’istituzione di percorsi legali e sicuri per la migrazione. 

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