Gaza, quando scatta l'idillio tra Israele e Hamas
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Gaza, quando scatta l'idillio tra Israele e Hamas

L'escalation di violenza che per tre giorni ha infiammato la Striscia di Gaza e Israele aveva un interesse comune: fronteggiare il Jihad islamico. 

Gaza, quando scatta l'idillio tra Israele e Hamas
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Agosto 2022 - 14.16


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Gaza, quando Israele e Hamas hanno un interesse comune. Così Globalist ha titolato uno dei pezzi sulla nuova escalation di violenza che per tre giorni ha infiammato la Striscia di Gaza e Israele. Avevamo visto giusto. L’interesse comune era fronteggiare il Jihad islamico. 

Nasce un idillio

In verità, non è la prima volta che Israele s’”innamora” di Hamas. Era già avvenuto oltre trent’anni fa. Trentacinque per la precisione. Erano gli albori della prima Intifada, la rivolta popolare che ripropose con forza all’attenzione internazionale, spiazzando Israele, la questione palestinese. Per contenere l’Olp di Yasser Arafat, Israele applicò il vecchio adagio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. E se non proprio amico, almeno un alleato tattico. E così, mentre i servizi d’intelligence israeliani puntavano a eliminare i capi di Fatah, allo stesso tempo non venivano ostacolate le iniziative di proselitismo che Hamas, in funzione anti-Olp, portava avanti soprattutto nella Striscia di Gaza. Fu un gravissimo errore che anni dopo Yitzhak Rabin (ministro della Difesa ai tempi della “rivolta delle pietre”) ammise con onestà. Ma ormai era troppo tardi. 

Ora la storia si ripete.

A raccontarla è una delle firme di Haaretz, Zvi Bar’el.

Scrive Bar’el: “L’entusiasmo degli israeliani per l’apatia di Hamas nei confronti della guerra privata della Jihad islamica contro Israele è stato come quello di chi ha ritrovato uno zio che si era perso per decenni. Hamas è diventato improvvisamente l’interlocutore di Israele non solo nella Striscia di Gaza, ma anche a Gerusalemme e in tutta la Palestina. Gli appelli a parlare direttamente con Hamas sono già visti come necessari, naturali e appropriati, e le numerose misure di soccorso di Israele nella Striscia sono considerate un “regalo” ad Hamas. In realtà, è la realizzazione della visione di Benjamin Netanyahu, che una volta disse: “Se danno, avranno; se non danno, non avranno”.

C’è solo un piccolo problema: lo sposo non vuole parlare con la sposa. Non solo la detesta, ma non la riconosce e si oppone alla sua stessa esistenza. La ragion d’essere di Hamas, in quanto movimento di resistenza nazionale islamica, si basa sul principio fondamentale che “non ci sarà alcun riconoscimento della legittimità dell’entità sionista. Qualsiasi cosa sia accaduta alla terra di Palestina in termini di occupazione, costruzione di insediamenti, ebraicizzazione o modifica delle sue caratteristiche o falsificazione dei fatti è illegittima” (la Carta di Hamas modificata del 2017).

È vero che il patto dell’Olp include clausole simili, ma Israele ha firmato con essa gli accordi di Oslo e nel corso degli anni l’organizzazione è diventata un partner che coordina persino la sicurezza con Israele. La differenza sostanziale è che l’Olp si fregiava del titolo di “unico rappresentante del popolo palestinese”, ottenendo il riconoscimento non solo della maggioranza dei palestinesi, ma anche degli Stati arabi. Hamas è un’organizzazione separatista, non fa parte dell’Olp ed è un acerrimo rivale della componente più importante dell’Olp, Fatah, e dell’Autorità Palestinese guidata da Fatah. Inoltre, mentre l’OLP si è seduta al tavolo dei negoziati, Hamas non si sognerebbe mai di farlo. Israele ha sfruttato con successo la violenta rivalità tra le due organizzazioni. Ha mostrato di essere disposto a condurre negoziati per una soluzione diplomatica, ma ha sempre posto una condizione fondamentale che li ha ostacolati. Il partner palestinese non è in grado di controllare Hamas, di reprimere il terrorismo o di far rispettare ad Hamas gli accordi di Oslo, e non rappresenta l’intero popolo palestinese. Pertanto, non c’è nessuno con cui parlare, nonostante l’irrefrenabile desiderio di Israele di raggiungere la pace. È così che Israele è riuscito fino ad oggi a mantenere l’occupazione senza pagare un prezzo diplomatico. Anche il fatto che Hamas non abbia partecipato all’ultima tornata di combattimenti viene presentato come un successo della politica israeliana di separazione della Cisgiordania da Gaza, come se fosse questo a costringere Hamas ad allinearsi ai dettami di Israele. La conclusione logica è che parlare direttamente con Hamas – anche se fosse possibile – non solo alimenterebbe questa falsa pretesa israeliana, ma la rafforzerebbe continuando a dare all’organizzazione un potere di veto su qualsiasi mossa vista come un segnale di accettazione di Israele. Hamas non è un partner e non è un sostituto di un partner, ma è un’organizzazione pragmatica che si impegna per la propria sopravvivenza e per continuare a governare Gaza, e questo è anche l’obiettivo strategico di Israele.

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Il modo più efficace e collaudato per raggiungere questo obiettivo condiviso non si basa sull’illusione di colloqui diretti con Hamas, ma piuttosto sul garantire e modellare una rete di garanzie regionali. La testa di ponte è già stata stabilita, sotto forma di coinvolgimento egiziano e qatariota. Questa rete potrebbe ora essere ampliata per includere la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e forse anche l’Unione Europea, che potrebbero mobilitarsi per finanziare la ricostruzione di Gaza e migliorare la qualità della vita nel Paese. Non si tratta solo di piccole concessioni come la concessione di permessi di lavoro o visti di transito agli studenti, l’ampliamento della zona di pesca consentita al largo delle coste di Gaza e il trasferimento di fondi da parte del Qatar per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Si tratterebbe di una decisione strategica per porre fine rapidamente alla chiusura di Gaza e di un piano globale per la ricostruzione e lo sviluppo economico del territorio, il tutto con la supervisione e le garanzie dei “Paesi soccorritori”.

Questo è il modo per condurre negoziati diretti con i gazawi, senza aspettare che Hamas riconosca Israele e senza tenere colloqui diretti con Hamas. Certo, Hamas non rinnegherà i suoi principi ideologici. Ma potrebbe indossare giacca e cravatta, come si addice a un’organizzazione politica civile che deve amministrare la propria autonomia”.

Così Bar’el

Zaki Chebab, uno dei più importanti giornalisti del mondo arabo, conclude così il suo libro Hamas. Storia di militanti, martiri e spie: “La realtà è che Hamas, a prescindere dalle sue fortune politiche, non scomparirà nel nulla, e nessuna azione militare riuscirà a sradicarlo. L’idea che l’esercito israeliano possa distruggere Hamas a suon di missili e carri armati riporta alla mente un raccapricciante commento degli americani durante la guerra in Vietnam:’ Abbiamo distrutto quel villaggio per salvarlo’. Questa strategia non funzionò in Vietnam e non funzionerà con Hamas. Hamas non è una forza guerrigliera venuta da un mondo alieno. Hamas è il fratello, è il vicino, o l’uomo che dà a tuo figlio i soldi per la sua istruzione. Fintanto che queste persone rappresenteranno il popolo palestinese nelle urne, l’Occidente e qualsiasi futuro governo dell’Anp dovrà accettarle per quello che sono – il lupo perde il pelo ma non il vizio – e dovrà trattare con loro”. Il libro di Chebabi è del 2007. Quindici anni dopo, le sue conclusioni reggono ancora.  

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Fazioni a gogò

La tragica ripetitività di questa quinta “mini guerra” di Gaza consiste nella frantumazione del campo palestinese – come del resto di quello israeliano. Proviamo ad esplorare le faglie palestinesi. Con l’aiuto di una autorevole guida locale: il professor Bishara A. Bahbah, che ha insegnato all’Università di Harvard, è stato membro della delegazione palestinese ai colloqui di pace multilaterali sul controllo delle armi e la sicurezza regionale, ed è  fondatore del Palestine Center di Washington, D.C. Bahbah distingue tre fazioni principali nel campo palestinese. Riportiamo di seguito la sua analisi. 

La prima è guidata dallo stesso Mahmud Abbas e da quattro aspiranti successori: il segretario generale di Fatah, Jibril Rajub; Majed Faraj, capo delle forze di sicurezza dell’Anp e principale garante palestinese della sicurezza di Israele; Hussein al-Sheikh, ministro incaricato del Coordinamento degli affari civili con Israele; e Mohammad Shtayyeh, primo ministro con una lontana speranza di succedere ad Abbas quale presidente dell’Anp. 

La sfida più seria a questo gruppo viene dalla seconda fazione, diretta da Marwan Barghuti e Nasser al-Kidwa. La paura di Abbas di essere scalzato da Marwan Barghuti ha portato il suo stretto confidente Hussein al-Sheikh a visitare Barghuti in prigione per offrirgli di guidare la lista di Fatah insieme a dieci dei suoi candidati. Barghuti ha rifiutato l’offerta.  Nasser al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat, ex ministro degli Esteri palestinese, rappresentante di lunga data dell’Olp all’Onu e membro del Comitato centrale di Fatah, ha poi dichiarato (con un certo coraggio) che stava formando una lista di Fatah a sostegno di Marwan Barghuti. Poco dopo, il Comitato centrale lo ha espulso. Barghuti, secondo gli ultimi sondaggi, ha le migliori possibilità di battere Abbas o il candidato di Hamas, presumibilmente Ismail Haniyeh, e diventare presidente dell’Anp. Il fatto che si trovi in un carcere israeliano condannato a più ergastoli non gli impedirebbe di essere eletto. Una vittoria potrebbe produrre la pressione internazionale sufficiente per farlo rilasciare. 

 La terza fazione è guidata da Mohammed Dahlan, nemesi di Abbas ed ex alto funzionario di Fatah, che ora vive in esilio autoimposto negli Emirati Arabi Uniti. Dahlan è stato squalificato dalla candidatura alla presidenza dell’Anp con la scusa inventata di essere stato condannato da un tribunale palestinese in un caso inventato da Abbas. Tuttavia, Dahlan ha in programma di mettere in campo una lista denominata Movimento di riforma democratica, che probabilmente sarà pesantemente sostenuta dai suoi compagni di Gaza – civili, ex funzionari della sicurezza, e molti abitanti dei campi profughi sia nella Striscia che in Cisgiordania. Dahlan è stato “condannato” con l’accusa di corruzione e appropriazione indebita di fondi, poi espulso da Fatah. Prove: zero. Qualsiasi fondo Dahlan abbia ora accumulato è grazie al suo lavoro per Mohammed bin Zayed, capo degli Emirati Arabi Uniti. I figli di Abbas, invece, hanno accumulato più di un miliardo di dollari in beni, depositati in banche e investimenti in tutto il mondo. Le fonti di questi fondi sono società palestinesi che beneficiano di servizi forniti ai palestinesi. Chi avrebbe dovuto essere condannato per appropriazione indebita – Dahlan o Abbas, grazie al suo nepotismo? In un incontro zoom ospitato dalla Birzeit University, Nasser al-Kidwa ha dichiarato Dahlan persona non grata nella sua lista congiunta con Marwan Barghuti perché costui ha aiutato a facilitare la normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti. A parere di al-Kidwa, un atto squalificante. Da astuto diplomatico, al-Kidwa dovrebbe saperlo bene: se non fosse stato per l’intervento degli Emirati Arabi Uniti, Netanyahu avrebbe già annesso il 30% della Cisgiordania. Dahlan vanta il sostegno geopolitico e finanziario di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, oltre che dell’Egitto (ma senza capacità di erogare fondi). Rifiutare Dahlan è un errore per la lista al-Kidwa-Barghuti: un’alleanza tripartita avrebbe facilmente ottenuto ampio sostegno all’interno di Fatah e Hamas, godendo di un cruciale sostegno geopolitico e finanziario regionale.  Infine, la lista dell’ex primo ministro Salam Fayyad attirerà presumibilmente gli indipendenti, specialmente i tecnocrati e alcuni uomini d’affari palestinesi. Tuttavia, sarà senza dubbio la scheggia più debole delle liste legate a Fatah.  

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Il mandato del Consiglio legislativo palestinese è ufficialmente di quattro anni, ma le ultime elezioni legislative si sono svolte nel lontano gennaio 2006, quelle presidenziali l’anno prima. Quando la politica e la diplomazia abbandonano il campo, il vuoto è riempito subito dalle armi. Senza progetto e una leadership autorevole perché riconosciuta da chi dovrebbe rappresentare, c’è solo spazio per la disperazione. “Se viene meno ogni prospettiva di dialogo, se a Gerusalemme Est prosegue la “pulizia etnica” della popolazione araba, se Gaza continua a essere isolata dal mondo, se nella West Bank gli insediamenti si moltiplicano e si rafforza il regime di apartheid instaurato da Israele –  rimarca Hanan Ashrawi più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese, sostenitrice della protesta non violenta e della disobbedienza civile – ciò che resta è solo il desiderio di vendetta. È tragico, ma è così”.

D’altro canto, per i giovani palestinesi le tradizionali leadership politiche non hanno presa. Non sono modelli da seguire. E a funzionare non è neanche più il mito oramai sbiadito dal tempo di Yasser Arafat, né la chiamata alle armi da parte di Hamas e del Jihad islamico. “Sono i figli del disincanto, della perdita di speranza in un futuro normale”, riflette Sari Nusseibeh, il più autorevole intellettuale palestinese, già rettore dell’Università al-Quds di Gerusalemme Est: “Di Israele hanno conosciuto solo le barriere di filo spinato, i check point che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania, Gaza isolata dal mondo. I  più sono animati da un misto di rabbia e di delusione. Avrebbero bisogno di un progetto in cui credere, di segnali concreti che dicano loro che un’altra via è percorribile. Niente di tutto questo”.

Secondo Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr), i giovani palestinesi sposano valori più liberali di quelli dei loro anziani e sono insoddisfatti della loro leadership politica. I giovani palestinesi sono anche più propensi a sostenere la resistenza armata all’occupazione e a favorire la soluzione di uno Stato unico, poiché per loro “la richiesta di indipendenza e sovranità è meno importante della richiesta di uguali diritti”, rimarca Shikaki. In un recente sondaggio del Pcpsr, i palestinesi che hanno indicato la disoccupazione e la corruzione come i problemi più seri che la società palestinese deve affrontare oggi sono più numerosi di quelli che hanno puntato il dito contro l’occupazione israeliana.

Rabbia, disincanto, mancanza di prospettive per un futuro che sia degno di essere vissuto. Una miscela esplosiva che nessun “idillio” potrà mai disinnescare.

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