Ucraina, perché Putin punta sul "modello siriano"
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Ucraina, perché Putin punta sul "modello siriano"

La Siria è uno stato vassallo della Russia, da quando Putin decise nel settembre 2015 di salvare il presidente Assad con un intervento militare che rovesciò le sorti della guerra civile. E allora...

Ucraina, perché Putin punta sul "modello siriano"
Assad e Putin
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Luglio 2022 - 17.52


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La “pax siriana” trasporta in Ucraina. L’autocrate bussa sempre due volte. Vladimir Putin ci riprova.

A spiegarlo molto bene su La Repubblica, è uno dei giovani analisti di geopolitica più bravi in circolazione: Daniele Raineri.

Scrive tra l’altro Raineri: “[…]L’invasione russa dell’Ucraina si lega ogni giorno di più alla questione curdo-siriana. Due giorni fa il regime del presidente Bashar al Assad ha annunciato che riconoscerà l’indipendenza e la sovranità delle due repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk in Ucraina – e quindi aderisce senza riserve al disegno politico-militare del presidente russo Vladimir Putin. Non è una sorpresa. La Siria è uno stato vassallo della Russia, da quando Putin decise nel settembre 2015 di salvare il presidente Assad con un intervento militare che rovesciò le sorti della guerra civile. Oggi il regime di Damasco dipende da Mosca per molte ragioni, dagli aiuti militari fino alla copertura politica alle Nazioni Unite, ed è sempre pronto a contraccambiare come può.

In risposta all’annuncio, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenski, ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con la Siria. Fin qui è poco più che uno scambio di scortesie tra Stati lontani: dopotutto, la crisi siriana come può influire sulla guerra in Ucraina? Il punto è che a nord della Siria la Turchia del presidente Erdogan prepara un’invasione della regione siriana controllata dai curdi (anche conosciuta con il nome di Rojava). Il presidente turco l’ha già annunciata tre volte in cinque settimane e fonti delle autorità curde dal Rojava dicono a Repubblica di aspettarsi un’operazione militare turca attorno al 25 luglio. Per resistere ai turchi, i curdi siriani sono pronti ad alleanze variabili e a compromessi d’emergenza con chiunque: con gli americani, con i russi e persino con il regime di Assad…”.

Così Raineri

Una mattanza “silenziata”

A raccontarla, su Avvenire, è Asmae Dachan. “Almeno 83 civili  – scrive – sono stati uccisi ogni giorno in Siria dal 2011 al 2021, per un totale di oltre 300mila vittime. È quanto emerge da uno studio dell’Onu. Il dato concerne solamente le persone uccise come risultato diretto di operazioni di guerra e «non include i molti e molti altri civili morti a causa della perdita dell’accesso all’assistenza sanitaria, al cibo, all’acqua potabile e ad altri diritti umani essenziali», ha sottolineato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet. 

L’entità delle «vittime civili negli ultimi 10 anni rappresenta l’1,5% della popolazione totale all’inizio del conflitto e solleva serie preoccupazioni per il fallimento delle parti in conflitto a rispettare le norme del diritto internazionale umanitario sulla protezione dei civili». Dal punto di vista militare proseguono invece le violenze, in particolare nel nord del Paese. Il Comando centrale degli Stati Uniti ha affermato in una nota di aver effettuato un raid nella provincia siriana di Idlib che ha preso di mira un alto leader di un gruppo allineato ad al-Qaeda: l’attacco ha avuto come bersaglio Abu Hamzah al-Yemeni, un «leader anziano» di Hurras al-Din, una milizia legata ad al-Qaeda.

Nell’area del nord-est anche gli aerei da guerra turchi intensificano i loro raid contro le posizioni del Pkk e delle Ypg ad Al-Hasaké e nelle campagne di Aleppo. Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha confermato l’imminente inizio di nuove operazioni militari nelle aree controllate dalle milizie curde. Per il leader di Ankara l’avvio della nuova offensiva – di fatto “legittimata” con il sì a Svezia e Finlandia nella Nato – costituisce una «priorità legata alla sicurezza nazionale». Così Dachan.

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La paura  senza fine della pulizia etnica

Di grande interesse è il report per linkiesta.it a firma di Ghiath Rammo: “Nelle ultime settimane, mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla guerra russa in Ucraina, gli abitanti delle zone del Nord e dell’Est della Siria seguono solo le notizie sulle minacce del vicino di casa, la Turchia, che ogni giorno dichiara di voler intervenire, con una nuova operazione militare, nella zona controllata dalle Forze Democratiche della Siria (Fds) sotto la guida curda dell’Unità della Protezione del Popolo (Ypg).

L’obiettivo di Ankara questa volta è mirato a un’incursione nelle città di Tall Rifat e Minbij, a nord e ad est di Aleppo, a circa 20 e 30 km a sud del confine turco, secondo quanto dichiarato dal presidente turco. Le due città sono già circondate dall’esercito turco presente nelle aree sotto il controllo dell’opposizione siriana.

Infatti, l’operazione militare non sarebbe la prima, Ankara ha già effettuato quattro operazioni nel nord della Siria dal 2016, occupando centinaia di chilometri lungo il confine meridionale con il paese precipitato nel pantano della guerra civile. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha detto che l’obiettivo dell’intervento è liberare la zona dei terroristi dell’Ypg.

L’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, precedentemente conosciuta come Rojava, è nata dopo la rivoluzione siriana nel novembre del 2013. Negli anni, e durante la lotta contro l’Isis, ha subito delle variazioni tra le diverse proposte di sistema di governo e l’attuazione di una costituzione provvisoria, fino alla dichiarazione federale del 17 marzo 2016.

In queste dimensioni politiche i curdi hanno organizzato – e lo fanno tuttora – la propria vita quotidiana tramite una gestione locale che regola il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Grazie a questo sistema, il percorso politico e culturale dei curdi siriani è migliorato notevolmente. Ad esempio, per la prima volta, i bambini curdi hanno potuto frequentare una scuola che insegna in curdo; sono stati creati media locali (radio, TV e giornali); è stato possibile aprire centri culturali di teatro, cinema e arte. Nel 2021, per la prima volta nella storia della Siria, gli studenti curdi hanno potuto svolgere l’esame di maturità finendo un intero ciclo scolastico nella propria madrelingua.

Da quando è nato ilPartito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) in Turchia nel 2001, che si ispira all’Islam politico e alla democrazia conservatrice, controllando la maggioranza parlamentare dal 2002, ha inserito nel programma governativo l’obiettivo di trovare una soluzione interna alla questione curda. Questo perché la questione curda è sempre stata complicata e spinosa fin dai primi giorni della costruzione della moderna Repubblica Turca, aggravandosi a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Basta pensare infatti a come, fin dall’inizio degli anni ’90, lo stato turco abbia ufficialmente rifiutato di riconoscere l’esistenza della lingua curda, punendo chi parlava in curdo nella sfera pubblica e privata, e a come la politica statale di sfollamento forzato abbia portato all’evacuazione di oltre 2 milioni di curdi dalle campagne rurali ai centri urbani.

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Una politica c- rimarca ancora Rammo – he non ha consentito ai bambini di parlare la propria madrelingua, che ha portato le generazioni di età più avanzata a parlare tra di loro in turco – ancora oggi – costringendo inoltre molti scrittori curdi a esprimere i propri pensieri in lingua turca, trasformando il curdo in una lingua inferiore, tanto che ancora oggi si usa dire «ha una buona lingua» per indicare un curdo che parla bene il turco. Senza contare che questa rigorosa politica ha causato la perdita di oltre 40.000 vite a causa del conflitto armato tra il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e l’esercito regolare turco.”.

La denuncia di Oxfam

A 11 anni esatti dallo scoppio della guerra in Siria, il 60% della popolazione soffre la fame, con i prezzi dei beni alimentari che sono raddoppiati nell’ultimo anno. Il paese fino ad oggi ha fatto affidamento sulle importazioni di cibo dalla Russia, ma ora, con la crisi ucraina, i prezzi alimentari potranno diventare ancor più proibitivi.

È l’allarme lanciato da Oxfam, che ha realizzato un’indagine tra 300 siriani nelle zone del Paese controllate dal Governo: il 90% degli intervistati ha dichiarato di potersi permettere al momento solo un po’ di pane e riso, solo occasionalmente verdura.

L’impatto della crisi ucraina e della pandemia sul crollo dell’economia siriana

In un sistema economico già ridotto ai minimi termini da oltre un decennio di guerra, due anni di pandemia e dalla crisi bancaria libanese, in questo momento le sanzioni sulla Russia hanno un effetto dirompente, provocando l’interruzione delle importazioni di cibo e carburante, con la sterlina siriana che si sta svalutando ad una velocità vertiginosa.

 “6 siriani su 10 non sanno letteralmente come procurarsi il cibo –  afferma Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia – Nell’area intorno a Damasco le persone fanno ore e ore di fila per il pane, mentre i bambini cercano qualcosa da mangiare tra i rifiuti. Per sopravvivere molte famiglie si stanno indebitando, o decidono di mandare i figli a lavorare, razionano il numero di pasti. Per avere una bocca in meno da sfamare, fanno sposare le figlie, anche minorenni. Sono questi gli indicibili effetti di un conflitto dimenticato, in un Paese dove il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il tasso di disoccupazione è arrivato al 60% e il salario minimo mensile nel settore pubblico è di 26 dollari”. 

In questo momento 12,4 milioni di persone in Siria vivono in una condizione di insicurezza alimentare, il lavoro minorile è diffuso nell’84% delle comunità, mentre i matrimoni precoci nel 71%. Il Paese inoltre fino ad oggi ha fatto affidamento sulle importazioni di grano dalla Russia. Con lo scoppio della crisi in Ucraina, il Governo ha deciso perciò il razionamento delle riserve alimentari e non solo: oltre al grano, zucchero, riso e carburante. 

Cartoline dall’inferno 

“Terribile vivere sotto le bombe, ma non poter sfamare i figli è peggio”

Oxfam ha raccolto diverse testimonianze che raccontano il dramma che in questo momento sta vivendo il popolo siriano.  Per noi non ha senso pensare al domani, se non sappiamo cosa mettere in tavola oggi per sfamare i nostri figli”, racconta Hala, che vive a Deir-ez-Zor una delle zone più devastate dalla guerra dove Oxfam è al lavoro per soccorrere la popolazione.

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“Lavoro 13 ore al giorno per sfamare i miei figli, ma non sembra bastare – continua Majed che vive nel governatorato di Rural Damasco – A volte vorrei che la giornata durasse più di 24 ore per lavorare di più. Sono stanchissimo e non so se riusciremo a sopravvivere.”

 “Uno stipendio medio basta appena per le spese essenziali”, aggiunge Moutaz Adam.

Oxfam ha intervistato 300 beneficiari nelle aree governative dei governatorati di Aleppo, Deir-ez-Zor e Damasco rurale – 100 beneficiari in ciascuno – scoprendo che l’88% mangia solo pane, riso e occasionalmente verdure. Il 60% delle persone afferma di guadagnare meno di quanto necessario per coprire il proprio fabbisogno alimentare: il 10% fa affidamento solo su pane e tè per sopravvivere. Poiché il pane sovvenzionato fornisce circa 840 kcal al giorno, ciò equivale solo al 40% delle calorie necessarie per sopravvivere. Solo l’1,5% può permettersi raramente di acquistare carne.

A causa della mancanza di acqua corrente pulita, molte madri restano senza cibo per dare la priorità alla spesa per l’acqua potabile. Secondo un recente studio condotto da Save the Children in cinque comunità nel nord-est della Siria, quasi un terzo (30%) delle donne che allattavano al seno non riuscivano a produrre abbastanza latte per i loro bambini e quello che avevano era spesso era di scarsa qualità. Inoltre il 7% dei bambini tra i 6 e i 59 mesi presentava una malnutrizione acuta grave e il 13% aveva una malnutrizione acuta moderata.

“Undici anni dopo l’inizio del conflitto, la Siria non è ancora un luogo sicuro per i bambini. Continuano a vivere nella violenza della guerra, a sperimentare il dolore e perdita di tutto, ad essere sradicati dalla propria casa, in alcuni casi costretti a spostarsi più volte. Non riescono a vedere nessuna opportunità per il proprio futuro. Tutto questo ha avuto un profondo impatto sulla loro salute mentale e sul benessere. I bambini hanno bisogno di vivere in pace e quelli che si trovano in Siria meritano un futuro”, dice Sonia Khush, Direttrice per l’emergenza in Siria di Save the Children.

“L’attenzione del mondo si rivolge adesso alla guerra in Ucraina, ma non possiamo lasciare che i bambini siriani vengano dimenticati. Undici anni di conflitto sono un oltraggio. Tutte le parti in guerra devono porre fine alla violenza per garantire che i bambini vivano in un ambiente sicuro. È necessario che la comunità internazionale aumenti i finanziamenti e la fornitura di beni e servizi salvavita, essenziali affinché tutti i bambini sopravvivano, siano aiutati ad affrontare gli effetti del conflitto e a crescere sani. Inoltre, i rifugiati che sono fuggiti dalla Siria devono essere protetti, così come previsto dal il diritto internazionale”,  incalza Sonia Khush.

Ma il diritto internazionale è stato da undici anni sepolto nella martoriata Siria. Undici anni dopo l’inizio della guerra scatenata dal regime di Assad contro un popolo che rivendicava, sull’onda delle Primavere arabe, libertà, riforme, giustizia, in ciò che resta in piedi della Siria, conta solo la legge del più forte. Ed è su questo scenario devastato che Vladimir Putin ha imposto la sua “pax siriana”. Ora ci riprova in Ucraina. Con la stessa feroce determinazione. 

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