Ve lo diciamo subito: nessuno pensi di barattare la libertà di Zaki con la verità su Giulio Regeni
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Ve lo diciamo subito: nessuno pensi di barattare la libertà di Zaki con la verità su Giulio Regeni

Se l’odissea di Patrick sarà conclusa questo non dovrà far guadagnar punti ad al-Sisi e a i suoi scherani. L’Italia non dovrà mai riconoscergli licenza di uccidere. Con relativa impunità.

Ve lo diciamo subito: nessuno pensi di barattare la libertà di Zaki con la verità su Giulio Regeni
Zaki e Giulio Regeni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Dicembre 2021 - 18.48


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Ora tutti fanno a gara a chi si attesta il “merito” di aver fatto scarcerare Patrick Zaki. Ma quale “merito”? Quello di aver lasciato marcire per 669 giorni un giovane studente universitario “colpevole” agli occhi del regime egiziano di aver scritto un articolo in difesa dei diritti e della sicurezza della minoranza copta di Egitto?! E poi, libero non significa assolto.

Perché su Patrick pende ancora una possibile condanna a 5 anni di detenzione. Non si parli, per carità di patria, di una giustizia che, sia pur a rilento, ha fatto il suo corso. Perché la parola “giustizia” non esiste nel vocabolario dello Stato di polizia che regna nel Paese delle Piramidi.

Se dopo 22 mesi, Patrick è stato scarcerato, è solo perché questo fa comodo al presidente Abdel Fattah al-Sisi. Altrimenti, sarebbe rimasto ancora in una cella fetida, in condizioni disumane. In decine di articoli e interviste, Globalist ha documentato cosa sia oggi l’Egitto del presidente-carceriere. Un dato per tutti: oltre 35mila i “desaparecidos”, molti di più di quelli che furono fatti sparire in Argentina ai tempi della dittatura dei militari. Chiunque si oppone – un blogger, un attivista dei diritti umani, un avvocato, un giornalista indipendente – viene considerato dal regime del Cairo un sovversivo, un terrorista, una minaccia alla sicurezza dello Stato, e come tale trattato.

Patrick Zaki ha conosciuto questo inferno. E’ finito nel tritacarne di una magistratura alla totale dipendenze delle autorità politiche e militari. Pensate: le ultime sedute del processo a Zaki sono durate una media di 4 minuti. E un “Pm” si è fatto vivo solo nella seduta del 7 dicembre. Oggi gioiamo, assieme ai famigliari e agli amici di Patrick, per la sua liberazione.

Ma una cosa deve essere chiara: nessun baratto! Per essere ancora più espliciti: visto che con la scarcerazione di Zaki la giustizia non ha nulla a che vedere, allora la questione va posta su un piano diverso: quello della “diplomazia sotterranea” che ha lavorato in questi mesi per arrivare a dama, senza dover rompere con un Paese che, ripete in ogni dove il ministro degli Esteri Luigi di Maio, l’Italia considera un partner fondamentale per la stabilizzazione del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Che le cose non stiano così, vedi Libia, è acclarato, ma questo è un altro discorso. La liberazione, e l’auspicabile assoluzione, di Patrick Zaki non porta con sé il silenzio sulla morte di Giulio Regeni. Perché quella ferita, a distanza di anni, resta aperta. Giulio è stato vittima di un omicidio di Stato: questa verità storica deve diventare anche verità giudiziaria e politico-diplomatica. Il giovane ricercatore friulano, come confermano anche gli Egypt Papers –  i documenti riservati pubblicati dal  sito investigativo francese Disclose – oltre che le conclusioni della commissione parlamentare italiana d’inchiesta, è stato rapito, torturato e ucciso da agenti dei servizi egiziani, chi dice per un regolamento di conti interno. Di questi aguzzini si sa tutto, nome, cognome, qualifica. Ma le autorità egiziane non permettono di portarli alla sbarra.

Quella di Giulio Regeni è una storia di depistaggi, di collaborazioni millantate ma mai realizzate, di dossier infamanti, di provocazioni continue e a senso unico. I messaggi che giungono dal Cairo sono chiari: l’Italia non deve insistere nel chiedere verità e giustizia per quel giovane trucidato. Si accontenti di quel che il presidente-carceriere le ha concesso: la scarcerazione di Patrick Zaki. Di più non deve pretendere. Perché processare gli esecutori vuol dire avvicinarsi all’individuazione dei mandanti. E quei mandanti albergano nelle alte sfere del regime egiziano. E a capo della “cupola” c’è Abdel Fattah al-Sisi.

Qualche tempo fa, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ebbe a definire, giustamente” il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, un dittatore, Al-Sisi non gli è da meno.

In più, come aggravante, i suoi uomini hanno massacrato mortalmente un cittadino italiano. Il 1° febbraio 2022 sapremo se l’odissea di Patrick Zaki si sarà felicemente (sic) conclusa. Ma questo non farà guadagnar punti ad al-Sisi e a i suoi scherani. L’Italia non dovrà mai riconoscergli licenza di uccidere. Con relativa impunità. 

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