Israele e Palestina: le verità scomode e la sfida di uno Stato binazionale
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Israele e Palestina: le verità scomode e la sfida di uno Stato binazionale

Scomode perché smascherano soluzioni impossibili, anche se ripetute all’infino. Come quella due “due Stati”.

'Obiettivo Palestina', scatti di Federico Palmieri
'Obiettivo Palestina', scatti di Federico Palmieri
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Settembre 2021 - 19.12


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Si può essere d’accordo o no con Massimo D’Alema, ma è innegabile la sua competenza in politica estera. In particolare per quanto concerne il Medio Oriente. Sul conflitto israelo-palestinese, l’ex presidente del Consiglio dice verità scomode. Scomode perché smontano narrazioni demonizzanti, verso una parte, della stampa mainstreaam, e giustificatorie verso l’altra.  Scomode perché mettono a nudo le responsabilità della comunità internazionale nell’aver permesso la perpetuazione di un’occupazione. Scomode perché smascherano soluzioni impossibili, anche se ripetute all’infino. Come quella due “due Stati”.

L’amara verità

Io temo che prima o poi dovremo fare un esercizio di utile realismo dal momento che la comunità internazionale non è in grado di intraprendere e di sostenere la via dei Due Stati e del rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Tanto vale prendere atto di questa impotenza, sgombrare il campo della retorica e cominciare a guardare ai problemi veri”. Così D’Alema nel suo intervento  al convegno “I grandi mutamenti internazionali e il conflitto tra Israele e Palestina”, promosso da Campo Democratico-Socialismo e Cristianesimo. So

Sono trascorsi diversi mesi d’allora. Alla guida d’Israele non c’è più Benjamin Netanyahu, ma quella verità non è scalfita.

“Come mai – ha domandato D’Alema, cercando la radice dell’inerzia europea sul fronte Mediterraneo e Mediorientale – la peggiore destra europea, quella che ha radici antisemite, è diventata il baluardo di Israele? Quando il ministro degli Esteri Di Maio dice ‘non siamo nemmeno riusciti a fare un comunicato’  sul conflitto israelo-palestinese “che è già una sentenza sull’autorevolezza dell’Europa, domandiamoci pure chi è che ha messo il veto? Viktor Orban, rappresentante della destra più regressiva d’Europa, é diventato il principale sostenitore del governo di Israele. Siamo davanti a un paradosso. L’antisemitismo di ieri, oggi è diventato islamofobia. Israele con la sua grande potenza militare è visto come il baluardo dell’Occidente contro l’Islam”.

“La vera speranza – ha aggiunto in quell’occasione l’ex ministro degli Esteri – è quello che sta succedendo in America, perché l’Europa è paralizzata. Di recente ho visto sulla prima pagina del ‘New York Times’ le fotografie dei 68 bambini palestinesi uccisi a Gaza e ho pensato che, forse, si può aprire uno spiraglio. Nessun giornale italiano lo avrebbe potuto fare, salvo beccarsi l’accusa di antisemitismo e provocare una baraonda indescrivibile. Adesso nel mondo democratico Usa c’è chi fa il parallelo Palestinian lives matter”.

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“Lasciamo stare lo Stato palestinese, che non ci sarà mai. Diciamo piuttosto che i palestinesi sono cittadini di serie C, sotto occupazione militare, privi di diritti e di tutele che, però, lavorano per Israele e sono un pezzo del miracolo economico israeliano. Io penso – ha proseguito D’Alema – che il vero ‘game changer’ potrebbe essere il primo Paese europeo che decide di non dare più i soldi per pagare lo stipendio a migliaia di funzionari pubblici di una pseudo Autorità palestinese, priva di qualunque autorità, di cui, invece, secondo il diritto internazionale si dovrebbe occupare Israele come Paese occupante”.

Visto da Tel Aviv

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Rileggiamo ora le affermazioni di D’Alema alla luce di quanto scritto nei giorni scorsi da Jack Khoury, storica firma di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv: “Da quando è entrato in carica a giugno, il primo ministro Naftali Bennett ha annunciato in ogni occasione che ‘non ci sarà alcun processo diplomatico con i palestinesi’. L’obiettivo è quello di migliorare la loro situazione socioeconomica, uno sviluppo che secondo lui porterà stabilità e ridurrà la violenza. Non ci sarà nessuna discussione sui diritti nazionali, sui confini, sulla questione di Gerusalemme, e certamente non sul diritto al ritorno.

Israele continuerà a controllare la terra, lo spazio aereo, le risorse idriche e il registro della popolazione palestinese. Questa è la realtà alla quale i palestinesi – in Cisgiordania e in parte anche nella Striscia di Gaza – devono abituarsi. Chiunque osi resistere la pagherà, ma se i palestinesi si comportano bene, avranno accesso a internet 4G. Se intensificheranno il coordinamento della sicurezza con Israele e manterranno Gaza tranquilla, riceveranno persino una compensazione economica. In breve: mangiate, bevete e state allegri (nelle vostre città) – ma dimenticate i vostri sogni di statualità.

Questo è il modello che la destra in generale e Bennett in particolare vogliono imprimere nell’anima di ogni palestinese, il modello che viene applicato anche alla comunità araba in Israele: sì al denaro e ai diritti civili, no ai diritti nazionali. Questa formula dovrebbe garantire la supremazia di Israele come Stato ebraico e sionista per le generazioni a venire. Ma Bennett e i suoi partner devono capire che la decisione di non rinnovare i negoziati è, come ogni passo unilaterale, anche una politica.

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I palestinesi conoscono fin troppo bene questa tesi. È stata considerata già nel 1917, e formulata nella Dichiarazione Balfour come segue: ‘Il governo di Sua Maestà vede con favore l’istituzione in Palestina di una casa nazionale per il popolo ebraico, e … [si sforzerà] di facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina’. Diritti civili e religiosi e niente di più. I governi successivi di Israele hanno semplicemente conservato questa formula, con l’appoggio americano.

Bennett – un vero uomo di destra, ex presidente del Consiglio degli insediamenti di Yesha – non può rompere questa formula, nonostante il fatto che il suo governo includa e dipenda da Meretz e dalla Lista Araba Unita, e che Donald Trump non sia più alla Casa Bianca. Nemmeno lo spostamento dell’opinione pubblica mondiale, compresi gli ebrei d’Europa e degli Stati Uniti, lo farà cambiare.

Il primo ministro può censurare il fatto che il clima d’opinione internazionale non vede più i palestinesi come terroristi vestiti di kaffiyeh che sono una minaccia alla stabilità del mondo illuminato, ma piuttosto come esseri umani che meritano l’autodeterminazione nazionale e i diritti fondamentali. (Non è una coincidenza che il termine ‘apartheid’ permei ogni lezione o conferenza sull’argomento). Trova facile sostenere che il movimento di boicottaggio e la Corte Internazionale di Giustizia non lo spaventano. Dopotutto, niente di tutto ciò turba l’israeliano medio. Ma Bennett e i suoi partner di coalizione ignorano una cosa: i palestinesi vivono ancora sotto occupazione, e la Striscia di Gaza non sta per essere svuotata dei suoi abitanti.

Bennett, capisci questo – conclude Khoury – Mentre la destra conta i coloni in Cisgiordania e parla di rafforzare l’impresa degli insediamenti oltre la Linea verde, la parte palestinese conta il numero dei palestinesi tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, nella speranza che la demografia naturale crei una nuova realtà. Non solo Bennett, ma tutti coloro che cercano di nascondersi dietro di lui saranno partner di questo: Yair Lapid, Benny Gantz, Merav Michaeli e Mansour Abbas. Coloro che seguono la strada spianata da Benjamin Netanyahu racconteranno un giorno ai loro nipoti come hanno contribuito alla creazione di un unico Stato tra il mare e il fiume…”.

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Uno Stato, aggiungiamo noi, che finirebbe per abbattere uno dei pilastri che hanno retto la costruzione d’Israele: la sua identità ebraica. 

Nei circoli intellettuali progressisti è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una delle tante interviste concesse a chi scrive, Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano, recentemente scomparso: “Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale”.

D’Alema e Sternhell hanno svelato una verità scomoda e al tempo stesso lanciato una sfida per il futuro. Quella di uno Stato binazionale in Terrasanta. 

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