In Afghanistan contro le donne un tradimento lungo vent'anni
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In Afghanistan contro le donne un tradimento lungo vent'anni

Nel paese soprattutto le donne continuano ad essere nel mirino della violenza, le professioniste di qualunque ramo, dalle giornaliste, alle attiviste per i diritti umani, alle operatrici sanitarie,

Donne in Afghanistan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Agosto 2021 - 15.37


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Un grido d’aiuto che va raccolto. Subito. “Chiediamo al governo italiano e alla comunità internazionale di collaborare con noi studenti dell’Afghanistan, siamo un gruppo sociale vulnerabile in questo paese martoriato e abbiamo urgente bisogno di aiuto per salvare le nostre vite da questa situazione di immediato pericolo. Abbiamo bisogno della speranza per continuare la vita”. È l’appello lanciato da alcune studentesse afghane iscritte a La Sapienza rimaste bloccate a Kabul con una lettera inviata alla Stampa. Un messaggio simile è stato anche inviato a Repubblica.   

Nelle due lettere le studentesse e gli altri colleghi descrivono il terrore che stanno vivendo e chiedono aiuto. “Ieri ho letto la notizia che i talebani prenderanno il controllo dell’aeroporto alla fine di questo mese – scrivono sulla Stampa – ho un nodo alla gola che mi sta soffocando. Mi chiedevo se ci sarà qualcuno che possa leggere queste righe dal mio cuore spezzato e aiutarci a uscire da questa città sofferente prima che ci seppelliscano con tutti i nostri sogni”.

Un’altra studentessa racconta il suo tentativo di fuga in aeroporto: “Mi sono trovata faccia a faccia con i talebani e ho passato il loro posto di blocco – scrive nella lettera a Repubblica – sono stata picchiata da loro: mi hanno colpito alla schiena con un tubo ma ho resistito, mi sono trascinata vicino all’ingresso dell’aeroporto, ma è successo qualcosa che mi ha scosso l’anima. Un’esplosione. Si è fatto buio ovunque, sono scappati tutti. Mi sono trovata nella stessa situazione capitata alle mie amiche qualche tempo fa. Le vite di alcune delle mie migliori amiche sono state spezzate all’interno di una scuola dove si stavano preparando per l’esame di ammissione all’università”.  

“Le ragazze sono state divise in gruppi e affidate in situazioni protette in più case, stanno girando, per evitare di essere identificate. La situazione in questo momento è protetta, però bisogna correre. C’è un intensissimo scambio tra i tre ministeri coinvolti e l’università Sapienza. Prevedere il futuro è difficile, ma stiamo veramente facendo di tutto”. Lo ha detto a Buongiorno, su Sky TG24, la ministra dell’Università e Ricerca, Cristina Messa parlando delle studentesse bloccate a Kabul. 

“Fino ad ora – ha detto – abbiamo inviato la lista di studenti e studentesse considerati a rischio, che erano stati già accettati e in rapporti con il nostro Paese, perché erano in lista di priorità presso il ministero degli Esteri. Adesso si passa alla fase due in cui ci sarà un tavolo interministeriale ,per continuare a monitorare la situazione, ma come si può immaginare diventa tutto più difficoltoso. Le liste nominative restano solo in mano a noi, non devono arrivare alle forze che stanno occupando il Paese. Bisogna capire se si riesce ancora con qualche volo, altrimenti via terra”. Per il volo “si può lavorare con Francia e Inghilterra in modo particolare, la Difesa e gli Esteri stanno lavorando per questo”. 

Un tradimento lungo vent’anni

Un passo indietro nel tempo: 2003. Sono trascorsi due anni dall’inizio della guerra contro al-Qaeda e il regime protettore dei Talebani. L’Occidente reinventa le ragioni della sua presenza militare in Afghanistan e dalla guerra al terrorismo passa alla democratizzazione e modernizzazione del Paese asiatico. Democrazia e modernità sono parole al femminile. 

Ecco cosa scrive Amnesty International in un rapporto del 2003: “La comunità internazionale è venuta meno alla promessa di portare libertà e uguaglianza alle donne afghane. A quasi due anni di distanza la discriminazione, la violenza e l’insicurezza rimangono assai diffuse, nonostante le promesse dei leader mondiali, tra cui il presidente degli Stati Uniti Bush e il segretario di Stato Colin Powell, che la guerra in Afghanistan avrebbe significato la liberazione delle donne, ha sottolineato l’organizzazione per i diritti umani. Il rapporto, intitolato Afghanistan: nessuno ci dà ascolto, nessuno ci tratta come esseri umani,  denunciava, 18 anni fa,  il dramma delle donne, vittime di numerosissimi casi di violenza domestica, matrimoni forzati e stupri commessi dai gruppi armati. In alcuni casi, bambine persino di otto anni vengono date in sposa a uomini assai più anziani. Questa situazione è inaccettabile e richiede un’azione immediata, rimarca AI. 

Il rapporto rimarcava  inoltre l’impossibilità, per le donne afgane, di ricorrere alla giustizia. Nonostante l’abolizione delle norme che limitavano la loro libertà di movimento, viene loro tuttora impedito di cercare rimedi giudiziari a causa delle numerose barriere presenti nella società e all’interno delle comunità. Anche quando riescono ad avvicinare la polizia o un giudice, le donne subiscono una estrema discriminazione. L’ attuale sistema penale semplicemente non ha intenzione o non è in grado di affrontare il problema della violenza contro le donne. In questo momento è più facile violare i diritti delle donne che proteggerli e sostenerli, si legge nel rapporto di Amnesty International. Secondo l’organizzazione per i diritti umani, il governo dell’Afghanistan e la comunità internazionale dovrebbero adottare immediatamente una serie di misure per mantenere fede all’impegno di assicurare la giustizia alle donne afghane. Più di ogni altra cosa, è necessario assicurare la sicurezza attraverso il dispiegamento di una forza internazionale di peacekeeping al di fuori della capitale Kabul, in modo da creare un ambiente nel quale possa essere ristabilito uno stato di diritto, in assenza del quale parlare di protezione dei diritti delle donne non ha alcun senso. Amnesty International chiede nuovamente alla comunità internazionale di coordinare gli sforzi per integrare la protezione dei diritti delle donne nel contesto della ricostruzione delle forze di polizia, delle riforme legali e dell’istituzione degli organi giudiziari. Poco o niente è stato fatto. Di chi la responsabilità?

Uccise perché salvavano vite

Erano in prima linea contro la polio in Afghanistan, le tre operatrici sanitarie impegnate nella vaccinazione e uccise in meno di un’ora in due diversi attacchi al confine con il Pakistan, a Jalalabad nella parte orientale del Paese, per mano sconosciuta, non è infatti ancora chiaro chi ci sia dietro agli attentati che, per il momento, non sono stati rivendicati. Gli omicidi sono avvenuti il giorno dopo l’avvio della campagna da parte delle autorità di una campagna di immunizzazione, poiché, mentre il virus della polio è stato eradicato nel resto del mondo, rimane presente in Afghanistan e Pakistan, gli unici due Paesi dove la malattia è ancora endemica e dove le vaccinazioni, soprattutto nel primo, sono spesso viste con sospetto dai talebani, che continuano a bloccarle, anche con la violenza, nelle aree sotto il loro controllo, definendole un complotto occidentale per sterilizzare i bambini musulmani.

Gli omicidi continuano contro le donne

In Afghanistan soprattutto le donne continuano ad essere nel mirino della violenza, le professioniste di qualunque ramo, dalle giornaliste, alle attiviste per i diritti umani, alle operatrici sanitarie, appunto. L’Unicef sottolinea la sua indignazione tramite il direttore generale, Henrietta Fore, che esprime dolore per l’uccisione di “coraggiose vaccinatrici che erano in prima linea per combattere la diffusione della polio e mantenere i bambini dell’Afghanistan al sicuro da questa malattia invalidante”. La Fore poi ribadisce come “gli operatori sanitari non dovrebbero mai essere un bersaglio di violenza, ma essere in grado di svolgere le loro attività salvavita in un contesto sicuro e protetto”. Amnesty International, che definisce “atto codardo” quanto avvenuto, sollecita le autorità afghane ad indagare sull’accaduto e ad adottare tutte le misure necessarie per proteggere le operatrici e gli operatori sanitari durante la campagna vaccinale.

La denuncia di Emma

Per le donne afghane si aspetta “Niente di buono. Il Paese è nel caos più assoluto, e andrà peggio, prima che un nuovo governo possa porsi il problema di come regolare i diritti civili. Anche nella più favorevole delle ipotesi, ovvero che un governo talebano sia più moderato che in passato, si tratta di un movimento a trazione fondamentalista sunnita, con forti elementi di misoginia. Temo che le pie intenzioni di tutti i leader occidentali, che si sbracciano oggi ad annunciare sostegno ai diritti delle donne afghane, siano destinate a rimanere nel libro delle buone intenzioni”, così Emma Bonino in una intervista a Repubblica.

Il mio pensiero, la mia preoccupazione, la mia vicinanza sono rivolti soprattutto alle donne, che in ogni momento stanno rischiando di pagare con la vita il coraggio di essersi spese per la difesa delle libertà fondamentali e di essersi battute contro ogni forma di violenza. Il mio pensiero va a loro e ai loro familiari, che vivono ore drammatiche, in cui tutto sembra crollare. Insieme al pg Giovanni Salvi, e a tanti magistrati e avvocati che si sono rivolti spontaneamente al ministero, da giorni stiamo lavorando con i dicasteri per riuscire a mettere magistrati e magistrate, avocati e avvocatesse,  che sono stati in contatto con l’Italia, al riparo dal pericolo di rappresaglie”, dice al Corriere della Sera la ministra della Giustizia Marta Cartabia. . Ma, aggiunge,  “è inutile negare che le condizioni sono sempre più complesse e che ogni tentativo incontra enormi difficoltà” 

Colpevoli di essere giudici donna

E’ una delle tante tragedie contenute nella grande tragedia Afghanistan. Diversi giudici americani e di tutto il mondo stanno lavorando alacremente per far uscire dal Paese 250 magistrati donna e le loro famiglie dopo aver avuto notizia che i talebani le stanno dando la caccia casa per casa. Al tema dedica un approfondimento Nbc News, spiegando che molte delle giudici sono state formate negli Usa e hanno emesso dure sentenze sui combattenti talebani durante la guerra in Afghanistan, ma la maggior parte non ha diritto a visti speciali perché non sono mai state sul libro paga degli americani. “I Talebani ci cercano porta a porta”, ha rivelato una di loro nella provincia di Herat.  Patricia Whalen, giudice in pensione del Vermont, è molto preoccupata di riuscire a portarle all’interno dell’aeroporto di Kabul e tenerle lontane dai talebani. Whalen, che dal 2007 al 2012 è stata anche giudice internazionale per i crimini di guerra della Bosnia-Erzegovina, fa parte di un piccolo gruppo di magistrati che stanno lavorando febbrilmente per evacuare le 250 afghane e le loro famiglie. “I talebani ci cercano porta a porta”, ha rivelato una di loro nella provincia di Herat, che non ha voluto essere nominata perché ha paura dei miliziani: “Siamo in pericolo”. La donna, 31enne, ha spiegato che non dorme a casa da quando i talebani hanno preso Herat il 13 agosto, e non è neppure andata a lavorare. “La loro idea – ha aggiunto – è che le donne non possano essere giudici”. 

Con gli occhi del mondo puntati addosso, i talebani respingono le accuse di violenze e abusi che si moltiplicano da giorni. Ma per il momento, avvertono, “le donne devono restare a casa”, senza andare a lavoro.

“E’ per il loro bene, per impedire maltrattamenti”, dice il portavoce Zabihullah Mujahid parlando ai giornalisti nella seconda conferenza stampa dopo il ritorno dell’Emirato islamico in Afghanistan e assicurando che quella di impedire alle donne di lavorare è una decisione “temporanea”. Perché “le forze di sicurezza al momento non sono operative e non sono addestrate nell’affrontare la donna, nel parlare con le donne”. Quindi, “in questo momento dobbiamo fermare le donne finché non ci sarà una piena sicurezza per loro. Quando ci sarà un sistema appropriato, potranno tornare a lavoro”.  Ma sono rassicurazioni che convincono pochi. Dalla parità di diritti sbandierata nei giorni scorsi si è già passati al ‘rimanete a casa’ e per le donne torna l’incubo delle violazioni in un Paese riportato indietro di vent’anni. Proprio questo è un tema che preoccupa molto l’Occidente. I leader del G7 hanno dichiarato che i talebani “saranno ritenuti responsabili delle loro azioni” sul terrorismo e sui diritti umani, “in particolare quelli delle donne”. Mentre l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Michelle Bachelet ha rivolto un appello ai nuovi padroni di Kabul affinché rispettino diritti e libertà delle donne e delle bambine afghane, definendole una “linea rossa”.

In rete è diventato virale un video di una ragazza afghana che esprime la sua angoscia per il trattamento riservato dal mondo al suo paese. Condiviso per la prima volta dall’attivista per i diritti umani Masih Alinejad, il video mostra una ragazza in lacrime che grida: “Non contiamo perché siamo nati in Afghanistan. Non posso fare a meno di piangere. A nessuno importa di noi. Moriremo lentamente nella storia”. 

Alcuni testimoni al quotidiano inglese The Guardian avrebbero raccontato che i comandanti talebani hanno dato istruzione agli imam delle aree che si trovano sotto il loro controllo di fornire l’elenco delle donne “non sposate, di età compresa tra 12 e 45 anni affinché i loro soldati possano sposare in quanto bottino di guerra che spetta ai vincitori”.  

 

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