Sahel e Africa orientale: le rotte dimenticate della morte
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Sahel e Africa orientale: le rotte dimenticate della morte

Oggi in occasione della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, l’Unhcr rileva come “vi siano lacune nell’assistenza alle vittime di tratta e ad altre persone vulnerabili bisognose di protezione

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Luglio 2021 - 19.52


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Oggi in occasione della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, in una nota ufficiale rileva come “vi siano lacune potenzialmente letali nell’assistenza alle vittime di tratta e ad altre persone vulnerabili bisognose di protezione, lungo diverse rotte che attraversano il Sahel e l’Africa orientale.
Migliaia di persone in fuga da persecuzioni, conflitti armati, violenze e povertà, ogni anno subiscono abusi terribili nel corso del viaggio attraverso Sahel e Africa orientale per raggiungere l’Africa settentrionale, secondo il rapporto  pubblicato da Unhcr e MMC nel 2020. I sopravvissuti riferiscono di abusi sessuali e stupri, rapimenti a scopo d’estorsione, persone lasciate morire nel deserto, e oggetto di torture fisiche e psicologiche.
Grazie al sostegno dei donatori, Unhcr e le organizzazioni partner hanno intensificato gli sforzi volti a individuare le persone bisognose e ad aiutarle a accedere alle procedure di asilo e ad altri meccanismi per mettersi in salvo. Eppure, un nuovo rapporto di mappatura redatto dall’Unhcr mostra come i servizi fondamentali per assicurare protezione alle persone vulnerabili in transito siano ancora tristemente insufficienti.
Nella maggior parte dei Paesi, il sostegno legale è quasi inesistente e si registra una grave carenza di opportunità di accedere ad alloggi sicuri, servizi di salute mentale e sostegno psicosociale, e assistenza medica. Le vittime di tratta, in pratica, non hanno nessuno a cui potersi rivolgere per ricevere assistenza di base, e tanto meno specialistica, lungo tali rotte.
“Quando questi servizi non esistono, un viaggio intrinsecamente pericoloso alla ricerca di sicurezza od opportunità può trasformarsi in una lotta infernale per la mera sopravvivenza”, dichiara Vincent Cochetel, Inviato Speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo occidentale e centrale. “È necessario fare di più, collettivamente, per porre fine a questi abusi e incrementare il numero di servizi lungo queste rotte per le persone che necessitano di accedere alle procedure di asilo”.
Tra alcune delle aree geografiche in cui i servizi di protezione sono particolarmente limitati, e in cui sono presenti pochi attori umanitari, vi sono le remote regioni di frontiera di Mali, Niger e Sudan, lungo il limitare del Sahara. Tra quanti sono esposti a rischio maggiore, che potrebbero essere portatori di esigenze di protezione particolari, vi sono minori separati e non accompagnati, donne, anziani e persone LGBTIQ+ che necessitano di un rifugio.
“È necessario assicurare con urgenza più fondi e a più lungo termine da destinare ai servizi di protezione, affinché si possano salvare vite umane e alleviare le sofferenze delle persone sopravvissute”, rimarca Cochetel. “Tale necessità diventerà probabilmente ancora più importante, se i conflitti in corso o quelli intensificatisi recentemente nella regione – dall’Etiopia al Burkina Faso – continueranno a costringere le persone a fuggire”.
La maggior parte delle persone in fuga resta in aree vicine alla propria terra di provenienza. Secondo statistiche raccolte dall’Unhcr su scala mondiale, il 73 per cento di queste resta nella regione di origine. Sono oltre 3 milioni i rifugiati e sfollati interni che cercano protezione nel solo Sahel. Tuttavia, l’assenza di servizi lungo le rotte percorse può innescare pericolose prosecuzioni dei viaggi.
L’Unhcr chiede di profondere sforzi duraturi per far fronte alle cause alla radice delle migrazioni forzate. L’Agenzia, inoltre, rivolge un appello affinché sia ampliata l’offerta di canali d’ingresso sicuri e regolari a favore dei rifugiati, fondamentali per assicurare alternative percorribili rispetto al rischio di ricorrere alle reti del traffico e della tratta.
“La collaborazione con le organizzazioni locali e con le comunità della diaspora è parimenti essenziale, dal momento che apportano le proprie conoscenze del territorio e spesso la capacità unica di instaurare rapporti di fiducia con sopravvissuti, autorità e comunità”, aggiunge  Cochetel.
Tragedia umanitaria

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Sono 29 milioni le persone in bisogno di assistenza umanitaria nella regione del Sahel. I sei paesi che si affacciano sul deserto del Sahara sono di fronte ad una situazione di insicurezza “senza precedenti”, oltre ad una crisi alimentare imperante. L’avvertimento è giunto dalle Nazioni Unite e dalle ong presenti sul territorio.

In una dichiarazione del 27 aprile, i firmatari hanno affermato che ai numeri già impietosi dello scorso anno, si aggiungono altre cinque milioni di persone in Burkina Faso, Camerun settentrionale, Ciad, Mali, Niger e Nigeria nord-orientale.

 “Il conflitto nel Sahel si sta ampliando, divenendo più complesso e coinvolgendo sempre più attori armati”, le parole di Xavier Creach, coordinatore per il Sahel dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e vicedirettore per l’Africa occidentale e centrale. “I civili finiscono per pagare il prezzo più alto. Di fronte alle violenze, alle estorsioni o alle intimidazioni sono spesso costretti a fuggire lasciando la propria terra”.

La dichiarazione, firmata anche dal Consiglio norvegese per i rifugiati e dalla ong Plan international, afferma che circa 5,3 milioni di persone sono sfollate e necessitano di protezione. La violenza ha portato alla chiusura di migliaia di scuole in tutta la regione, mentre si prevede che circa 1,6 milioni di bambini soffriranno di malnutrizione acuta grave.

“Abbiamo visto la fame aumentare di quasi un terzo in Africa occidentale”, ha affermato Chris Nikoi, direttore regionale del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.

I firmatari hanno chiesto maggiori finanziamenti per affrontare il deterioramento della situazione umanitaria. “Dietro i numeri e i dati, ci sono storie di sofferenza umana”, ha affermato Julie Belanger, direttrice regionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari. “Senza risorse sufficienti, la crisi si intensificherà ulteriormente, erodendo la resilienza delle comunità e mettendo a rischio altri milioni di bambini, donne e uomini”, ha concluso.

Tra miseria e jihadismo

Rimarca Raffaella Scuderi su Repubblica: “L’Africa del Sahel e della fascia subsahariana si sta facendo sempre più insicura. Il terrorismo indebolisce i governi, le forze di sicurezza governative sempre più fragili abusano della popolazione civile e i gruppi jihadisti si rafforzano e si espandono. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi, che ogni trimestre stila un indice di pericolosità a livello globale.
L’ultima relazione parla di Africa in caduta libera. Sette Paesi sui 10 più pericolosi del mondo sono nel continente, sotto il Sahara. A cui se ne aggiungono altri 9 che prima erano ritenuti sicuri. La percentuale di aumento del rischio terrorismo rispetto all’analisi del 2019, è del 13%. Burundi, Costa d’Avorio, Tanzania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Mozambico e Senegal, sono diventati più pericolosi dell’anno scorso. Solo Ruanda e Repubblica Centrafricana sono più sicuri”.

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Radiografia dell’arcipelago jihadista

A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.  Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs. Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.

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Mix esplosivo

Luca Raineri ricercatore presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ha svolto diverse ricerche sul campo per lo più nel Sahel, in Mali, in Niger e nel Senegal. Questa la sua riflessione: “L’industria del traffico di esseri umani contribuisce all’aumento del reddito del Niger e alla stabilità del suo attuale Governo. Ad esempio, si dice che le società di autobus – che sono strettamente legate al contrabbando di esseri umani – appoggino l’attuale governo. Così, qualora quest’ultimo volesse interrompere tale traffico, queste persone – che sono molto potenti e rappresentano, forse, la fonte di economia più importante del Paese, indirizzerebbero altrove il loro sostegno, il che comprometterebbe la stabilità del regime. Inoltre, coloro che guidano le auto, i pullman e i furgoni con a bordo i migranti attraverso la città di Agadez, alle porte del Sahara, sono spesso anche le stesse persone che alcuni anni prima prendevano parte a insurrezioni e rivolte. Pertanto, si capisce come il Governo non abbia intenzione di lasciare questi individui senza lavoro, nonostante non svolgano la loro attività in modo legale. Il terzo elemento – prosegue Raineri – che vale la pena sottolineare è che anche l’esercito, approfittando dell’industria del traffico umano, sta facendo tanti soldi. Un esempio di questo fiorente mercato è dato dall’applicazione di una tassa che viene fatta pagare a tutti coloro che passano sulle principali rotte di contrabbando nel Paese. Il Niger, in realtà, è una nazione in cui hanno avuto luogo diversi colpi di Stato, cinque o forse di più, e tutti hanno provocato il rovesciamento dei precedenti regimi. Da questo si può capire quanto sia fondamentale la stabilità dei poteri al fine di assicurare la tranquillità del sistema di sicurezza. Ed è dunque, forse, questo il motivo per cui coloro che sono al potere vedano il perpetrarsi di tale istigazione sistematica alla corruzione o ad attività di traffico, a scapito dei migranti, come una sorta di male minore rispetto a un’eventuale destabilizzazione del Paese…”.

 Considerazioni che portano ad una conclusione: in Niger – , uno dei Paesi più poveri del mondo-  come in Mali, e negli altri Paesi dell’Africa subsahariana o subsaheliana di origine e di transito di migranti, pensare di contrastare i trafficanti e i loro alleati jihadisti senza attivare nel contempo progetti volti a migliore le condizioni di vita della popolazione locale, più che una illusione appare un pericoloso azzardo.

Un azzardo mortale. 

 

 

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