In Africa si estende il Califfato e "loro" creano un "gruppo di lavoro"....
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In Africa si estende il Califfato e "loro" creano un "gruppo di lavoro"....

Le bandiere nere di Daesh sventolano da tempo in Africa e loro che fanno? Pensano ad gruppo di lavoro ad hoc. Sai che spavento per i grippi jihadisti che imperversano in mezzo continente africano.

Isis -Foto di repertorio
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29 Giugno 2021 - 17.19


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Le bandiere nere di Daesh sventolano da tempo in Africa e loro che fanno? Pensano ad gruppo di lavoro ad hoc sull’Africa. Sai che spavento per i grippi jihadisti che imperversano in mezzo continente africano.

Il vertice dell’acqua calda

Bisogna compiere ogni sforzo possibile per scongiurare una resurrezione dell’Isis in Siria e Iraq ma il nuovo fronte su cui concentrare la lotta al terrorismo è l’Africa subsahariana, con la polveriera del Sahel teatro di carneficine sempre più sanguinose e il consolidarsi dell’insurrezione jihadista in Mozambico e Corno d’Africa. La riunione ministeriale della Coalizione globale contro Daesh  svoltasi ieri a Rima ha fatto il punto su una lotta da rimodulare contro un nemico sfuggente ma ancora pericolosissimo, che ha perso i suoi ultimi scampoli di territorio in Siria e Iraq ma vede le sue cellule espandersi su un’area del mondo sempre più vasta, grazie a una propaganda online penetrante che va contrastata con la stessa determinazione di una controffensiva militare. 

“Sono stati ottenuti importanti successi ma molto resta da fare”, sottolinea il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in apertura del vertice. “Daesh è stato sconfitto nella sua dimensione territoriale ma non è stato sradicato” nè in Iraq nè in Siria, dove il consolidamento della vittoria contro il califfato “rimane una priorità”. “Maggiore attenzione”, ha avvertito Di Maio, “va poi dedicata alle ramificazioni dell’Isis in Africa”, in particolare nel Sahel, “la cui stabilità è fondamentale anche per la stabilità dell’Europa”.

Un’area del mondo dove l’offensiva jihadista si intreccia con le rotte dei trafficanti di esseri umani e ai danni inflitti dal cambiamento climatico ad allevamento e agricoltura, con la lotta per le risorse idriche alla base di molte violenze intercomunitarie. Per questo, afferma il ministro degli Esteri, è necessario “un approccio olistico” che passi per il “rafforzamento delle istituzioni locali” e “un aumento degli stanziamenti in cooperazione e sviluppo”. 

È a questo scopo che Di Maio propone la creazione di un gruppo di lavoro ad hoc per l’Africa, una proposta che riceve il “forte sostegno” del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, che condivide la “forte preoccupazione” per l’espansione del terrorismo, da contrastare senza che passi in secondo piano “la lotta ai residui dell’Isis in Iraq e in Siria”.

Naturalmente, come sempre accade, di questi finanziamenti non v’è traccia e quando si sono manifestati sono serviti per sostenere regimi militari e autocrati di vario genere trasformati in improbabili “gendarmi” delle frontiere esterne dell’Europa.

Africa, trincea jihadist

Rimarca Raffaella Scuderi su Repubblica: “L’Africa del Sahel e della fascia subsahariana si sta facendo sempre più insicura. Il terrorismo indebolisce i governi, le forze di sicurezza governative sempre più fragili abusano della popolazione civile e i gruppi jihadisti si rafforzano e si espandono. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi, che ogni trimestre stila un indice di pericolosità a livello globale.
L’ultima relazione parla di Africa in caduta libera. Sette Paesi sui 10 più pericolosi del mondo sono nel continente, sotto il Sahara. A cui se ne aggiungono altri 9 che prima erano ritenuti sicuri. La percentuale di aumento del rischio terrorismo rispetto all’analisi del 2019, è del 13%. Burundi, Costa d’Avorio, Tanzania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Mozambico e Senegal, sono diventati più pericolosi dell’anno scorso. Solo Ruanda e Repubblica Centrafricana sono più sicuri”.

Radiografia dell’arcipelago jihadista

A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.  Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

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Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs.

Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.

La comunità internazionale deve essere più interessata a ciò che sta accadendo in Mali”, dice a Globalist  Mahamat Saleh Annadif, rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite e capo della Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali). “Sosteniamo di aver spazzato via lo Stato islamico in Iraq, in Siria. Ma c’è qualcuno che si chiede dove stanno andando i miliziani fuggiti dal ‘Siraq’?. Ebbene, una parte significativa si è insediata nel Sahel”, rimarca Annadif. Gruppi armati come Daesh  e al-Qaeda stanno guadagnando forza in Mali. Nuovi gruppi armati sono entrati nella mischia, alcuni sfruttando le tensioni pastorali e intercomunali di lunga data, causando un’escalation di violenza mortale tra le comunità Fulani e Dogon. “Il conflitto intercomunitario è sempre esistito. Fa parte della società. Ma in passato c’erano i meccanismi tradizionali per gestire questo conflitto”, afferma ancora Annadif. “Sono arrivati ​​i terroristi, hanno cacciato tutte queste persone, prendendo possesso del territorio e imponendo la propria legge”. Il capo della Minusma sottolinea la necessità che la comunità internazionale faccia di più per arginare la crescente ondata di violenza nel Sahel.. “Come suole dire il presidente del Mali: il Mali per il momento è una diga; se si arrende, se la ‘diga’ cede, rischia di invadere il resto dell’Africa e l’Europa”, avverte Annadif.  “Il Sahel sta diventando un arsenale militare aperto. Ci sono più di 60 milioni di armi che circolano nel Sahel. Se gli europei e le altre potenze non agiscono con determinazione e unità d’intenti, e di risorse, , un Sahel jihadizzato finirà per minare la sicurezza dell’Europa e contaminerà il resto del mondo. Non si tratta – conclude Annadif – solo di potenziare l’aspetto di sicurezza ma investire per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, sottraendole, soprattutto i giovani, al reclutamento di jihadisti e trafficanti”.  Fin dalla sua istituzione, la missione di peacekeeping, definita dal Washington Post l’operazione più pericolosa al mondo per i caschi blu, ha dimostrato evidenti difficoltà nel fermare l’insorgenza delle decine di gruppi jihadisti armati attivi nell’area. Minusma è la più grande missione Onu al mondo, con 13.200 soldati e 1900 poliziotti impegnati. Copre un territorio molto vasto in zone ad alto rischio. I militari caduti, fino a marzo 2019, sono stati ben 122, più 358 feriti gravi. Nella regione di Menaka è particolarmente attiva la costola sahariana dello Stato islamico, che si è dimostrata capace di sfruttare le tensioni locali tra gruppi etnici – come quelle tra tuareg e fulani – per seminare discordia e richiamare nuovi combattenti tra le sue file. Alla base delle violenze nella remota regione, c’è anche il controllo dei traffici di droga, armi e migranti in transito per il nord del Mali e il dominio dei territori abbandonati da Bamako. Si tratta di una regione dove è forte e radicata la presenza di milizie jihadiste, che vanno ben oltre l’Isis, che nelle aree di frontiera tra Niger, Libia e Algeria (a Ovest) e Niger, Libia e Ciad (a Est) hanno assorbito i reduci delle lunghe battaglie algerine e ha sfruttato la frammentazione della Libia per rafforzarsi e diventare sempre più insidioso. E’ L’Africa delle terre di nessuno, in cui jihadisti e trafficanti di armi e di uomini si muovono a proprio agio attraversando porose frontiere tratteggiate solo sulla carta. Il Sahel come nuova frontiera della Jihad globale. “La regione – spiega Andrew Lebovich, visiting fellow all’European Council on Foreign Relations, autore di un prezioso lavoro  di censimento dei gruppi jihadisti attivi nell’area –  è al centro di tensioni di tutti i tipi, gli Stati sono deboli, con forze armate poco efficienti, corruzione molto elevata. I gruppi jihadisti cercano di capitalizzare le tensioni etniche e il risentimento contro i governi locali per impiantarsi con più sicurezza. Prendono parte ai conflitti etnici, e si presentano come protettori di comunità locali, siano i Tuareg nel Nord, o i fulani nelle regioni centrali del Sahel”. Dalla Libia alla Nigeria, dalla Somalia al Mali, dal Chad al Sudan,  dal Bangladesh al  Kenya, dal Maghreb al Sahel all’immensa area subsahariana.. Le forze in campo sono possenti, bene addestrate, meglio ancora armate: Boko Haram, al Sheebab, alQaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Al Sharia, Isis. Il quadro della penetrazione jihad-qaedista in Africa è impressionante. La sola Aqmi, ad esempio, è operativa in Algeria, Libia, Mauritania, Tunisia, Mali, Niger, Senegal e Nigeria. D’altro canto, annota Mostafa El Ayoub, analista dell’Islam radicale, L’Aqmi o l’Isis sono strumenti di controllo e di pressione in mano a chi ambisce a far entrare la regione nella propria sfera d’influenza religiosa. L’Africa settentrionale è un terreno fertile per il fondamentalismo islamico, sul quale Isis potrebbe attecchire velocemente facendo molti proseliti nell’estremismo locale. Un processo già in atto. E da tempo. Fonti di intelligence occidentali hanno peraltro rimarcato come siano sempre più evidenti i legami tra Boko Haram e Aqmi. I primi contatti risalgono al 2010 secondo quanto è stato affermato dal leader di Aqim, Abdelmalek Droukdel, le cui dichiarazioni vennero riportate dalla Reuters nel gennaio 2012, il quale asserisce che a partire da quel momento è stata fornita assistenza, addestramento ed armi a Boko Haram. Sembra anche accertato che anche nel corso del 2013 un gruppo di miliziani di Boko Haram siano stati inviati in Mali per addestrarsi. Secondo la stampa inglese il portavoce di Boko Haram avrebbe incontrato di recente figure di spicco di al-Qaeda, addirittura in territorio saudita. L’obiettivo è quello di unificare i maggiori gruppi jihadisti del grande Maghreb (dal Marocco all’Egitto) e del Sahel (dal Mali al Sudan passando da Chad, Niger e nord della Nigeria) eleggendo un nuovo emiro della zona. in gioco ci sarebbe il progetto della creazione dello Stato islamico del Maghreb Al Aqsa. L’obiettivo di questi movimenti non è solo provocare uno scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica, ma anche innescare l’implosione degli Stati ereditati dal periodo coloniale. Oggi i miliziani di Boko Haram  governano su un’enclave di circa 30 mila chilometri quadrati, equivalente più o meno al Belgio, che comprende territori degli Stati settentrionali di Adamawa, Yobe e Borno. D’altro canto, l’appoggio del numero uno di al-Qaeda, Ayman al Zawahiri, non ha cambiato la strategia terroristica della setta nigeriana. Con oltre 10mila miliziani che nel tempo sono diventati più potenti e organizzati dell’esercito federale, che con poche munizioni, negli scontri diretti, è spesso costretto alla ritirata, l’obiettivo è e resta quello di una guerra intestina per trasformare il Nord in un Califfato trapiantato nel cuore dell’Africa. Dietro a Boko Haram c’è anche la voglia di mettere le mani sul petrolio. Perché la Nigeria è il primo produttore di greggio al mondo, che fornisce il 20% del Pil, il 95% delle esportazioni e il 65% delle entrate governative. Una ricchezza naturale immensa. Come non bastasse, il caos in Libia minaccia di destabilizzare ulteriormente l’Africa occidentale, dove già diversi paesi sono chiamati a fronteggiare violenze di matrice islamista e scontri intercomunitari, questi ultimi alimentati dalla presenza dei jihadisti. In tale contesto, il conflitto in corso in Libia è “benzina sul fuoco”, ha ammonito il ministro dell’Interno del Niger. “La situazione in Libia favorisce lo sviluppo della criminalità transfrontaliera e della circolazione delle armi che rafforza gli individui armati e alimenta i conflitti in tutto il Sahel”, ha affermato  Mohamed Bazoum in una recente intervista a Bloomberg. Se il Sud-Est del Niger è teatro di raid da parte dei jihadisti nigeriani di Boko Haram, a preoccupare il governo di Niamey è soprattutto la presenza di gruppi legati allo Stato islamico e ad alQaeda nel vicino Mali. “La minaccia posta dei gruppi terroristici è molto più pericolosa perché fa pressione sulla capitale – ha spiegato Bazoum – il Mali è quello di cui parla il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. I loro combattenti sono già arrivati. E’ la loro nuova frontiera”. Al-Baghdadi è stato eliminato, ma non la minaccia di un “nuovo Califfato”. Il Califfato africano. Ancora più pericoloso di quello mediorientale. E la Coalizione globale pensa ad un “gruppo di lavoro ad hoc”…

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