Congo, il parco della morte, trincea di milizie e del Califfato nero
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Congo, il parco della morte, trincea di milizie e del Califfato nero

L’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio è morto insieme a un militare dell’Arma dei Carabinieri lunedì, intorno alle 9 italiane, a Kanyamahoro. Lo conferma con «profondo dolore» la Farnesina. 

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Febbraio 2021 - 13.52


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Ucciso in una delle roccaforti del Califfato nero. Laddove, il 16 aprile 2019, il Califfato ha riconosciuto e proclamato una nuova provincia con base nella Repubblica Democratica del Congo: lo Stato islamico dell’Africa centrale. L’ambasciatore italiano in CongoLuca Attanasio è morto insieme a un militare dell’Arma dei Carabinieri lunedì, intorno alle 9 italiane, nella cittadina di Kanyamahoro. Lo conferma con «profondo dolore» la Farnesina. 
L’ambasciatore, 43 anni, sposato con tre figlie, e il carabiniere di 30 stavano viaggiando a bordo di una autovettura in un convoglio della Monusco, la missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo. C’è anche una terza vittima. Attanaso è stato colpito da spari. L’attacco, compiuto con armi leggere, sarebbe stato un tentativo di rapimento. Un diplomatico di alto rango a Kinshasa ha spiegato all’Afp che Attanasio è morto “in seguito alle ferite riportate” dopo essere stato colpito dai proiettili esplosi dagli assassini contro il convoglio. Il militare era in servizio presso l’ambasciata italiana dal settembre del 2020.

Un autista è la terza vittima dell’attacco nella provincia orientale del Nord-Kivu, rivela una fonte diplomatica a Kinshasa. L’ambasciatore, aggiunge la fonte, è deceduto dopo essere stato ferito da colpi d’arma da fuoco all’addome ed è arrivato all’ospedale di Goma in condizioni critiche. “Le forze armate del Congo stanno facendo il possibile per sapere chi siano gli autori dell’attacco”, avvenuto a nord di Goma. La regione del Nord-Kivu è teatro dell’azione di decine di gruppi armati che si contendono le risorse naturali e ospita il Parco dei Virunga, famoso per i gorilla di montagna.

L’attacco era un “tentativo di rapimento”, rivelano i ranger del Parco nazionale dei Virunga, citati da vari media tra cui il Jerusalem Post. L’attacco è avvenuto intorno alle 10 (le 9 italiane). 

Sono molti i gruppi armati che operano nella zona dei monti Virunga, fra Congo, Ruanda e Uganda, e spesso prendono di mira i ranger del parco, famoso per i gorilla di montagna. “L’attacco ha avuto luogo circa 15 km a nord della città di Goma, in pieno parco dei Virunga”, scrive Actualite.cd. “La zona è ritenuta pericolosa a causa della presenza in particolare dei ribelli della Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) che tendono imboscate sulla RN4 a partire dal parco”, ricorda il sito.

Il Parco Nazionale dei Virunga è nato nel 1925 ed è iscritto nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco. La riserva naturale di estende su oltre 7.700 chilometri quadrati ed è sorvegliata da 689 ranger armati, di cui almeno 200 sono stati uccisi nell’esercizio delle loro funzioni. 

La conferma della Farnesina

 E’ con profondo dolore che la Farnesina conferma il decesso dell’ambasciatore e di un militare dell’Arma dei Carabinieri. 

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dopo aver informato i colleghi Ue del tragico evento esprimendo tutto il suo dolore per la morte del nostro ambasciatore in Congo e del carabiniere, ha deciso di lasciare in anticipo i lavori del Cae e sta rientrando in queste ore in Italia. “Ho appreso con sgomento e immenso dolore della morte oggi del nostro Ambasciatore nella Repubblica Democratica del Congo e di un militare dei Carabinieri – ha affermato Di Maio -. Due servitori dello Stato che ci sono stati strappati con violenza nell’adempimento del loro dovere. Non sono ancora note le circostanze di questo brutale attacco e nessuno sforzo verrà risparmiato per fare luce su quanto accaduto. Oggi lo Stato piange la perdita di due suoi figli esemplari e si stringe attorno alle famiglie, ai loro amici e colleghi alla Farnesina e nei Carabinieri”.

Il cordoglio di Mattarella e Draghi

Un messaggio di cordoglio è arrivato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Ho accolto con sgomento la notizia del vile attacco che poche ore fa ha colpito un convoglio internazionale nei pressi della citta di Goma uccidendo l’Ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. La Repubblica Italiana è in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell’adempimento dei loro doveri professionali in Repubblica Democratica del Congo.”. 

Dal Quirinale a Palazzo Chigi. “Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime profondo cordoglio del Governo e suo per la tragica morte di Luca Attanasio, Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, e di Vittorio Iacovacci, appuntato dei Carabinieri che lo accompagnava a bordo di un convoglio a Goma”. E’ quanto si legge in una nota di palazzo Chigi.    Il Presidente del Consiglio e il Governo “si stringono ai familiari, ai colleghi della Farnesina e dell’Arma dei Carabinieri. La Presidenza del Consiglio segue con la massima attenzione gli sviluppi in coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri”, aggiunge la nota. 

Tra i più giovani ambasciatori 

Luca Attanasio aveva 43 anni ed era uno degli ambasciatori italiani più giovani nel mondo. Era nato a Saronno (Varese) il 23 maggio 1977. Dopo la laurea alla Bocconi di Milano in economia aziendale, nel 2001, aveva vinto il concorso in diplomazia e nel 2003 era stato nominato Segretario di legazione in prova nella carriera diplomatica. Confermato in ruolo dal 29 settembre 2004, era entrato nella segreteria particolare del Sottosegretario di Stato e poi nel 2006 nominato segretario commerciale a Berna, 20 marzo 2006. Diverse esperienze nelle ambasciate in Svizzera, Marocco, e Nigeria.  Nel 2010 il trasferimento a Casablanca con funzioni di console. Dopo il rientro alla Farnesina come capo Segreteria della Direzione Generale Mondializzazione e Questioni globali nel 2013, nel 2014 di nuovo in Africa come Primo segretario ad Abuja per un’assegnazione breve. Ad Abuja era tornato come consigliere nel 2015.   A Kinshasa era stato nominato Incaricato d’Affari il 5 settembre 2017, e poi confermato quale incaricato d’Affari con Lettere, nel gennaio 2019. 

“Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato – raccontava il diplomatico – non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere. Il ruolo dell’ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani ma anche contribuire per il raggiungimento della pace”. Era sposato con Zakia Seddiki, fondatrice e presidente dell’associazione umanitaria “Mama Sofia” che opera nelle aree più difficili del Congo salvando la vita ogni anno a centinaia di bambini e giovani madri.

Il Califfato africano

La tragica morte del nostro ambasciatore e del carabiniere della sua scorta, accendono i riflettori su un’area del mondo attraversata da violenza, povertà. L’area del Califfato africano. 

In seguito a un attacco a una base militare, il 16 aprile 2019, il Califfato ha riconosciuto e proclamato una nuova provincia con base nella Repubblica Democratica del Congo: lo Stato islamico dell’Africa centrale.  “La capacità di adattamento del Califfato è evidente anche nella genesi dell’Iscap, in cui hanno un ruolo centrale le milizie dell’Allied Democratic Forces rimarca in un documentato report su InsideOver Emanuele Oddi. 

“Il gruppo armato Adf  – scrive Oddi – opera a cavallo tra Repubblica Democratica del Congo e Uganda da oltre un ventennio. Nate nel 1995 per mano di congolesi ed esponenti salafiti ugandesi, le milizie dell’Adf sfruttano la catena montuosa del Ruwenzori come base per compiere incursioni nelle regioni dell’Ituri e del Nord Kivu. Dal punto di vista ideologico scelgono di avere un’identità fluida che giustifichi la guerriglia armata con motivazioni politiche, religiose, etniche o secessioniste. Le frequenti incursioni hanno fatto delle milizie dell’Adf un attore parastatale che crea scuole, prigioni, banche, ospedali e riscuote le tasse. A questi introiti vanno aggiunti quelli derivanti dal commercio illegale (oro, caffè e legno) e le continue razzie compiute nei villaggi adiacenti alla regione – pur senza entrare in conflitto con le milizie Mai Mai o Fdlr.

Tra il 2011 e il 2015 le Allied Democratic Forces sono drasticamente ridimensionate grazie all’azione militare di Rdc, Rwanda e Uganda. Il numero degli effettivi passa da alcune migliaia e poche centinaia; Jamil Mukulu, leader dell’organizzazione, è arrestato in Tanzania e tuttora è detenuto in Uganda.

Successivamente alle sconfitte del 2015, l’Adf cambia pelle e rielabora la propria narrativa cristallizzandola in chiave religiosa. È presentata una nuova bandiera che graficamente ricorda quella di Daesh e reca la scritta: Tawheed Wau Mujahedeen (La città del monoteismo e dei guerrieri sacri), tant’è che alcuni analisti contrassegnano il movimento con la sigla Mtm. Nei territori controllati sono imposte leggi islamiste e le Adf si dichiarano ufficialmente a favore dello Stato Islamico. Sheikh Musa Baluku, capo delle milizie dal 2015, si assicura che il messaggio dell’Adf sia diffuso capillarmente tramite media tradizionali e social (in particolar modo Telegram), segnando un punto di svolta nella radicalizzazione di Adf, che in parte già si fondava su idee derivanti dall’ideologia jihadista.

Dal 2018 in poi, grazie all’assistenza esterna dello Stato islamico (logistica, militare ed economica), gli attacchi dell’Adf iniziano a essere rivolti anche verso militari e caschi blu, causando in tutto 415 morti. Cooperazione tra Adf e Is che pare essere confermata da Waleed Ahmed Zein, operatore finanziario dello Stato islamico. Arrestato nel Luglio 2018 Zein sembrerebbe aver fatto da tramite tra le strutture centrali del Califfato e l’Adf, trasferendo denaro e risorse umane.

Gli attacchi non sono cessati nel 2019, anzi si sono focalizzati su obiettivi strategici, come quello del 16 di Aprile, in cui sono morti due militari e un civile. L’attacco è stato reclamato dall’Isis in un video diffuso il 29 Aprile. La rivendicazione ufficiale fa dell’Afd/Iscap una wilaya al pari dell’Isgs o dell’Iswap, non una semplice organizzazione affiliata.

La nascita di questa nuova cellula dell’Isis  è quindi la sommatoria di fattori locali ed esterni. L’Adf, prima moribondo, ha trovato nello Stato Islamico nuova linfa. Un valido alleato capace di finanziare e supportare azioni armate e di propaganda. D’altro canto, la direzione centrale dello Stato islamico ha scelto con attenzione le tempistiche per la proclamazione della nuova provincia, dimostrando di essere un’organizzazione ancora viva e attiva”. 

Africa, trincea jihadista

Rimarca Raffaella Scuderi su Repubblica: “L’Africa del Sahel e della fascia subsahariana si sta facendo sempre più insicura. Il terrorismo indebolisce i governi, le forze di sicurezza governative sempre più fragili abusano della popolazione civile e i gruppi jihadisti si rafforzano e si espandono. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi, che ogni trimestre stila un indice di pericolosità a livello globale.
L’ultima relazione parla di Africa in caduta libera. Sette Paesi sui 10 più pericolosi del mondo sono nel continente, sotto il Sahara. A cui se ne aggiungono altri 9 che prima erano ritenuti sicuri. La percentuale di aumento del rischio terrorismo rispetto all’analisi del 2019, è del 13%. Burundi, Costa d’Avorio, Tanzania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Mozambico e Senegal, sono diventati più pericolosi dell’anno scorso. Solo Ruanda e Repubblica Centrafricana sono più sicuri”.

Radiografia dell’arcipelago jihadista

A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.  Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs.

Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.

Luca Attanasio operava in questa realtà. Era un diplomatico impegnato sul campo, a contatto diretto con una umanità sofferente. Chi scrive ha avuto modo di conoscerlo durante la sua permanenza alla Farnesina. Sorridente, sempre disponibile, univa competenza e passione per l’Africa. Un continente che amava. Fino all’ultimo dei suoi giorni. 

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