Arabia Saudita, la vergogna del G20
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Arabia Saudita, la vergogna del G20

#LoujainAlHathloul, incarcerata da oltre 2 anni con altre attiviste trasferita a una corte speciale per l'antiterrorismo. Questo è il regno Saud "in via di modernizzazione" che sabato ha ospitato il G20

Pena di morte in Arabia Saudita
Pena di morte in Arabia Saudita
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Novembre 2020 - 17.35


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Senza vergogna. Cos’altro si può dire dei grandi della Terra che hanno tenuto, sabato scorso, la riunione del G20 in Arabia Saudita. A questi signori, tra cui il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, dedichiamo questo hastag: #LoujainAlHathloul, incarcerata da oltre 2 anni assieme ad altre attiviste, è stata trasferita a una corte speciale per l’antiterrorismo. Questo è il regno Saud “in via di modernizzazione” che sabato ha ospitato il G20

Vergogna infinita

Il nove novembre scorso, il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle donne (Cedaw) aveva lanciato l’allarme per il peggioramento progressivo delle condizioni di salute dell’attivista saudita Loujain al-Hathloul, in sciopero della fame per protesta contro le condizioni carcerarie. La 31enne, in prima fila nella lotta per i diritti delle donne e per il diritto alla guida nel regno wahhabita, ha iniziato a rifiutare il cibo il mese scorso, denunciando le restrizioni e gli abusi cui è oggetto nella cella nella quale è rinchiusa. Rilanciando il suo caso, il Comitato Onu si rivolge in modo diretto a re Salman invocandone il rilascio immediato.
Elettroshock, frustate e abusi sessuali. 

Loujain al-Hathloul si è battuta in prima persona nelle Campagne per l’abolizione delle medievali restrizioni delle libertà delle donne in Arabia Saudita ed è stata arrestata dalle autorità saudite per aver violato le norme inerenti alla sicurezza nazionale, nel contesto di una più ampia operazione per reprimere i movimenti attivisti, soprattutto quelli femminili. Secondo quanto raccontano i parenti di Loujain, lei è stata costretta in regime di isolamento per tre mesi, ed è stata oggetto di elettroshock, frustate e abusi sessuali. I suoi carcerieri le avrebbero addirittura offerto la possibilità di uscire dal carcere se avesse dichiarato di non aver subito torture. 

Le autorità negano ogni accusa. Intanto, fra i capi d’imputazione emersi c’è quello di aver chiesto la fine della tutela maschile, di aver contattato organizzazioni internazionali e diplomatici Onu e stranieri. E comunque, pur restando in carcere, finora i giudici non hanno emesso una sentenza di condanna. Il 26 ottobre Loujain al-Hathloul ha iniziato lo sciopero della fame per le restrizioni subite, fra cui il divieto di poter comunicare in modo regolare con la famiglia. “Non può sopravvivere in prigione – dice la sorella Lina alla Bbc – senza sapere cosa ne sarà del suo domani. “Non sa – aggiunge – quando potrà ricevere la prossima visita… se domani o fra un anno. Mia sorella è risoluta e dice: preferisco morire, se non ho idea di quanto posso rivedere i miei genitori regolarmente”. 
Il Comitato Onu sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne è composto da 23 esperti indipendenti da tutto il mondo e lancia un severo richiamo sulle condizioni di salute fisiche e mentali di Hathloul. In una nota si legge un invito perentorio alle autorità saudite di “proteggere i suoi diritti alla vita, alla salute, alla libertà e la sicurezza delle persone, in ogni frangente e circostanza, rispettando le sue libertà di coscienza ed espressione, incluso lo sciopero della fame”.

Non una parola è stata detta dai Venti “grandi” sulla vicenda che riguarda Hathloul. 

Amnesty: il prezzo che si paga per essere femministe in Arabia Saudita

Il 19 maggio 2019 – ha ricordato Amnesty International in un suo report – le autorità saudite e la stampa governativa hanno lanciato una campagna diffamatoria a mezzo stampa per screditare come “traditori” e “traditrici” cinque attiviste per la difesa dei diritti delle donne, accusate di aver formato una “cellula” allo scopo di minacciare la sicurezza dello stato mediante “contatti con entità straniere destinati a compromettere la stabilità e il tessuto sociale” della monarchia saudita.

Queste pacifiche difensore dei diritti umani delle donne possono ora affrontare fino a 20 anni di carcere per la loro campagna contro il divieto di guida in Arabia Saudita.

Gli arresti di due delle attiviste donne più importanti sulla scena saudita – Samar Badawi, sorella del blogger incarcerato Raif Badawi, e Nassima al-Sada – mostrano che la repressione delle donne attiviste è tutt’altro che finita.

Entrambe sono state prese di mira, molestate e poste sotto il divieto di viaggiare per il loro attivismo per i diritti umani.

L’inganno del principe ereditario

L’attività di alcune di queste donne è stata determinante nella revoca del divieto – eppure il principe ereditario Mohammad bin Salman ha poi anche rivendicato l’abolizione del divieto come una delle sue “politiche riformiste visionarie”, sottolinea AI.

Di fatto nonostante i tentativi di passare come “riformatore” la repressione dei difensori dei diritti umani in Arabia Saudita è peggiorata dalla sua nomina, con diversi attivisti detenuti, processati e condannati a lunghe pene detentive.

La storia del movimento per il diritto di guidare

Negli anni Novanta circa 40 donne salirono a bordo delle loro automobili e percorsero alla guida una delle strade principali della capitale Riad. Vennero fermate dalla polizia e sospese dal lavoro.

Nel 2007 venne lanciata una campagna di lettere al defunto re Abdullah. L’anno successivo Wajeha al-Huwaider si filmò alla guida e pubblicò il filmato su YouTube l’8 marzo, Giornata internazionale delle donne.

Altre donne fecero lo stesso nel 2011: alcune vennero arrestate, una fu condannata a 10 anni, altre furono costrette a firmare un documento nel quale promettevano di desistere da ulteriori proteste.

Nell’ottobre 2013 la campagna riprese slancio. Il sito venne hackerato e alcune attiviste ricevettero minacce. Ciò nonostante, decine di donne pubblicarono in rete filmati e fotografie in cui erano riprese mentre guidavano. Seguirono numerosi arresti, molti dei quali per brevi periodi di tempo.

Dopo l’annuncio, nel settembre 2017, della fine del divieto a partire dal 24 giugno 2018, molte protagoniste della campagna hanno ricevuto telefonate in cui venivano ammonite a non commentare pubblicamente la novità.

Loujain al Hathloul, Nassima al-Sada, Samar Badawi, Maya’a al-Zahrani e Nouf Abdulaziz – annota Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – sono state protagoniste di importanti campagne per i diritti delle donne, tra cui quelle per il diritto alla guida e per la parziale fine del repressivo sistema del tutore maschile. Sono in prigione dalla primavera del 2018, accusate di ‘aver cercato di minare la sicurezza e la stabilità del regno e l’unità nazionale”. Loujain, dopo mesi di isolamento, dopo la tortura con le scariche elettriche, dopo le molestie e la violenza sessuale, ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di comunicare con i suoi familiari. Se le autorità saudite fossero serie quando parlano di diversità di genere e di emancipazione delle donne, Loujain, Nassima, Samar, Maya’a e Nouf non dovrebbero stare in carcere”.

Il punto è che quelle autorità “serie” sul rispetto dei diritti umani, in particolare delle donne, non lo sono affatto. Ma lo scandalo è che vengono premiate ospitando una riunione del G20. Finiamo come abbiamo iniziato questo pezzo: VERGOGNA.

 

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