Il Sultano va all’abbordaggio diplomatico. La Turchia ha convocato l’ambasciatore italiano, dell’Unione Europea e l’incaricato d’affari tedesco, in seguito a quella che è stata definita una “ispezione non autorizzata, in violazione del diritto internazionale marittimo”, dopo che la fregata “Hamburg” ha fermato e perquisito la nave cargo turca “Rosseline” al largo del Peloponneso diretta al porto libico di Misurata. Il presidente turco Recep Tayyip Erogan ha parlato di “Operazione di parte”.
Il controllo, avvenuto nell’ambito della missione Irini, per Ankara è illegale poiché eseguito “senza il consenso della Turchia né del capitano”. In particolare, secondo il ministero turco, il capitano e l’equipaggio sono stati perquisiti con la forza e trattenuti in una parte della nave mentre la squadra tedesca ha perquisito l’imbarcazione “con la forza” e senza il consenso né del capitano né del governo di Ankara. Secondo quanto riferito dal portavoce del ministero della Difesa tedesco, Christian Thiels, l’ordine di salire a bordo del mercantile turco è arrivato dalla sede operativa della missione a Roma. E Berlino ha precisato in una nota: “Tutto è avvenuto secondo le procedure, la nave tedesca ha cercato di ottenere il consenso da parte del capitano. Consenso negato, ma la perquisizione è poi scattata comunque, rivelando però un carico di materiale umanitario ed edile, non di armi, come ritenuto inizialmente.
D’altro canto, i Paesi che più supportano militarmente le fazioni in lotta – Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Egitto – sembrano intenzionati a voler sfidare ancora l’embargo Onu.
“Nel complesso,– rimarca su starmag.it Lorenzo Marinone – la missione europea dimostra una duplice natura: da un lato, essa rappresenta un’iniziativa troppo timida per ridare voce alla diplomazia, mentre dall’altro risulta eccessivamente irruenta per non provocare uno sbilanciamento decisivo nelle dinamiche del conflitto. Soprattutto, la missione Irini e i suoi possibili effetti non costituiscono in alcun modo una garanzia di recuperare centralità nel dossier libico per le Cancellerie europee. Né per quelle tradizionalmente più favorevoli ad Haftar come Parigi, né per quelle, come Roma, la cui posizione si è evoluta in un appoggio al Gna di Tripoli ‘temperato’ dall’accettazione di un ruolo politico per Haftar nonostante la sua aggressione sulla capitale. Al contrario, una soluzione militare della crisi consegnerebbe una posizione dominante a quelle potenze, come gli Eau, che hanno fornito ai vincitori i mezzi necessari per imporsi, e un ruolo ben più marginale, quasi di ‘passacarte’, a quelle potenze, come i Paesi europei, chiamate soltanto a vidimare a posteriori il nuovo status quo”.
E tra questi “passacarte” c’è l’Italia.
Il prezzo dell’esternalizzazione
L’Italia – annota Annalisa Camilli, in un documentato report su Internazionale – ha attive in Libia quattro missioni militari: la missione bilaterale di supporto alla Libia, il supporto alla guardia costiera libica, Unsmil (la missione dell’Onu in Libia) ed Eubam (la missione dell’Unione europea per il controllo delle frontiere). Inoltre è presente nel Mediterraneo centrale con le operazioni marittime Mare sicuro della marina militare, con la missione europea Eunavfor Med Irini e con la missione Nato Seaguardian. Dal 2017 Roma ha speso in Libia un totale di 784,3 milioni di euro, di cui 213,9 in missioni militari. Nel complesso i fondi sono aumentati di anno in anno con il doppio obiettivo di fermare l’arrivo di migranti e di accrescere l’influenza italiana nell’ex colonia nel caos dal 2011, dopo la caduta dell’ex dittatore Muammar Gheddafi. Per l’addestramento e il sostegno alla guardia costiera libica lo stanziamento di fondi è passato dai 3,6 milioni di euro nel 2017 ai dieci milioni previsti nel 2020. In questi anni è cambiato in sostanza solo l’impegno su Eunavfor Med. La missione navale europea Sophia (attiva dal 2015) è stata sostituita nel 2019 dalla missione Irini, che ha cambiato obiettivo e si è concentrata sul pattugliamento della parte orientale della costa libica. Alcune funzioni che prima erano di Sophia sono state passate alla Guardia costiera libica. Per quanto riguarda Mare sicuro si legge nel documento che “a seguito dell’evoluzione della crisi libica, si rende necessario potenziare il dispositivo aeronavale, al fine di contribuire ad arginare il fenomeno dei traffici illeciti e rafforzare le capacità di controllo da parte delle autorità libiche, con assetti con compiti di presenza, sorveglianza, sicurezza marittima, raccolta informativa e supporto alle autorità libiche”.
Il bastone e la carota.
La Turchia si considera una parte inseparabile dell’Europa, con la quale condivide 600 anni di legami storici, e chiede che l’Ue mantenga l’impegno di accoglierla come membro: è l’appello lanciato domenica da Erdogan, in un discorso rivolto ai membri al governo del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp).
“Chiediamo all’Ue di mantenere le sue promesse, di creare un legame più stretto con noi, mantenendo la loro promessa di piena adesione e rispettando gli impegni sui migranti, di non discriminarci o almeno di non farsi strumento dei nemici che prendono di mira il nostro Paese”, ha detto il presidente. “Non ci vediamo altrove che in Europa”, ha aggiunto, “vogliamo costruire il nostro futuro insieme all’Europa”. “Non abbiamo problemi con l’Ue che non possano essere risolti attraverso la politica, la diplomazia e il dialogo”, ha aggiunto Erdogan.
Tra i dossier aperti ci sono le ingerenze di Ankara in Libia e le esplorazioni di idrocarburi nelle acque contese del Mediterraneo che hanno portato a uno scontro con la Francia, poi acuito dal caso della decapitazione di un professore francese che aveva mostrato ai suoi studenti le vignette su Maometto.
Le parole di Erdogan, concordano analisti di geopolitica e fonti diplomatiche sollecitate da Globalist, appaiono come un appello all’Ue in vista del vertice di dicembre che dovrebbe discutere delle relazioni con Ankara. L’Unione ha adottato una “doppia strategia” verso la Turchia con cui ha messo sul tavolo la minaccia delle sanzioni, ma ha anche proposto un incremento delle relazioni bilaterali se il Paese anatolico metterà fine “ad azioni unilaterali contrarie al diritto internazionale”, come le esplorazioni di idrocarburi nelle acque contese del Mediterraneo. Con l’Ue, di gran lunga suo primo partner per importazioni ed esportazioni, la Turchia ha progressivamente raffreddato i rapporti dal 2016, quando fu stabilito di affidare ad Ankara (dietro compenso) la gestione di più di 3,7 milioni di rifugiati siriani, riducendo al contempo gli ingressi informali in Europa.
Il bastone e la carato. In salsa ottomana.