In Libia il futuro è nel passato: le tribù. Radiografia di un potere intoccabile
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In Libia il futuro è nel passato: le tribù. Radiografia di un potere intoccabile

La Libia è da sempre un insieme di tribù e di clan - 140 - più che una nazione. Ognuno controlla una parte del territorio ed hanno interessi nell’estrazione delle risorse naturali del Paese.

Milizie in Libia
Milizie in Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Settembre 2020 - 09.24


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Il caos libico si trasferisce al Palazzo di Vetro. Le Nazioni Unite dovrebbero indagare sulle violazioni a cui sono sottoposti i cittadini nella città di Sirte e i membri della tribù Qadhafah (la tribù del defunto colonnello Muammar Gheddafi) per mano dei miliziani del generale Khalifa Haftar, in Libia.

Ad affermarlo, ieri, è stato il capo del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale (Gna), Fayez al Farraj, nel suo discorso alla 75ma sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. “L’aggressione alla città di Tripoli ha rappresentato una palese violazione di tutti i principi e le fondamenta dei diritti umani”, ha detto Sarraj un video-messaggio, citando “bombardamenti indiscriminati, l’uccisione, e lo sfollamento di civili, la posa di mine e le esecuzioni sul campo testimoniate dalle fosse comuni ritrovate nella città di Tarhuna”.

Il premier del Gna ha accolto con favore la costituzione di una commissione Onu di accertamenti dei fatti avvenuti a Tripoli e Tarhuna, ma invita anche ad indagare sulle “violazioni a cui sono sottoposti i cittadini nella città di Sirte per mano dei miliziani di Haftar, l’ultima delle quali è stato l’arresto di un certo numero di membri della tribù Qadhafah e l’uccisione di uno di loro davanti ai familiari”. 

Scontro senza fine

Sarraj attacca Haftar, ma il generale di Bengasi è tutt’altro che spacciato.  I diplomatici stranieri impegnati in Libia sostengono che Haftar si stia mettendo di traverso nei negoziati di pace, così come era già successo in passato in diverse occasioni. L’offensiva contro Tripoli era iniziata per esempio poco prima di un’importante e attesa conferenza di pace promossa dall’Onu: Haftar l’aveva avviata per ottenere nuove vittorie in battaglia da usare poi nei negoziati, e partire da una posizione di forza.

Il fatto che oggi possa contare ancora su un significativo potere militare e finanziario, ha detto a Reuters Mohamed Eljarh, esperto di Libia, potrebbe permettere ad Haftar di riprendersi la rilevanza politica persa con le sconfitte militari degli ultimi mesi.

Al momento sembra difficile pensare che Haftar si faccia da parte, e non solo per il controllo dei terminal petroliferi. I suoi più importanti alleati hanno infatti deciso di non scaricarlo, valutando che non ci fossero alternative migliori: negli ultimi anni Haftar è diventato una figura di enorme rilevanza in Libia, che tra le altre cose ha garantito una relativa coesione alle molte milizie che combattono al fianco del governo orientale.

Gli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni hanno fornito alle milizie del governo orientale molte armi e molti droni, non sembrano intenzionati a ritirare il loro appoggio ad Haftar. L’interesse emiratino per le sorti della guerra in Libia potrebbe inoltre essersi rafforzato dopo l’intervento in aiuto di Serraj della Turchia, paese che da parecchio tempo si scontra con gli Emirati su diversi temi, tra cui l’appoggio al movimento politico-religioso dei Fratelli Musulmani (che il governo turco sostiene, quello emiratino no). Un discorso simile si può fare per il governo francese di Emmanuel Macron, che sta continuando a insistere sull’affidare ad Haftar un ruolo politico, oltre che militare, nonostante l’opposizione di diversi paesi dell’Unione Europea. Negli ultimi anni Macron aveva investito molto su Haftar, di fatto elevandolo da comandante militare a figura politica centrale per risolvere la guerra in Libia: per la Francia, rinunciare ora ad Haftar potrebbe quindi voler dire rinunciare a tutto il capitale e l’influenza accumulata finora in Libia.

Il generale e le tribù

Il rapporto Haftar e le potenti tribù libiche “probabilmente andrà sotto pressione” se l’uomo forte della Cirenaica “continuerà a patire sconfitte nella sua campagna” per la conquista di Tripoli. “Comunque è probabile che le tribù dell’est continueranno a dargli il loro sostegno perché non c’è una credibile alternativa” per i loro interessi. A sostenerlo è Alison Pargeter, analista del King’s College di Londra. In un testo pubblicato dal sito del Carnagie Middle east center, l’analista sostiene che “altre tribù orientali non accetteranno” un eventuale dominio del presidente del parlamento libico, Aqila Saleh, esponente di un clan dell’est, quello degli Obeidat, sebbene si stia mettendo in evidenza con una proposta politica per porre fine all’attacco di Haftar alla capitale libica. La tribù cui appartiene Haftar è invece originaria dell’ovest e ciò sarebbe invece “decisivo” per rendere suo esponente “accettabile” in Cirenaica.”Haftar rientra nella tradizione dei laici capi militari nazionalisti arabi come Gheddafi e Saddam Hussein che, originari di piccole tribù e città periferiche” hanno “riconosciuto l’importanza di controllare il sostegno tribale”, ha ricordato Pargeter, che è anche senior visiting fellow all’ Istituto per gli studi sul Medio Oriente” del think tank londinese.
Le tribù orientali hanno visto nel generale “un’opportunità” per liberarsi delle “nuove forze rivoluzionarie” – “prevalentemente urbanizzate” e con molti “islamisti” tra le loro file – che avevo preso il controllo di Bengasi dopo la caduta e uccisione del dittatore Muammar Gheddafi nel 2011.
Dato che “egli è l’unico vero uomo forte nell’est”, queste tribù orientali continueranno a vederlo come “il miglior protettore dei loro interessi”, ha sostenuto ancora l’analista sottolineando fra l’altro che il generale – quale ex ufficiale del vecchio regime del 1969 ma che si è unito alla rivoluzione del 2011 – incarna ai loro occhi “il vecchio e il nuovo”.
Il carattere “prevalentemente urbanizzato dei poteri principali a Tripoli”, dove è insediato il premier Fayez al-Sarraj, e a Misurata peraltro rimane sospetto anche “per molte delle tribù nell’ovest”, ha affermato Pargeter. “Senza coinvolgere le tribù è impossibile governare la Libia”, ha notato l’analista ricordando fra l’altro che Haftar ha rispolverato idee e simboli tribali e attribuito posti di responsabilità ai clan iniziando a corteggiarli nel 2013. Già a marzo del ’14 era riuscito ad avere dalla sua molte delle maggiori tribù dell’est tra cui quelle degli Awaqir, Obeidat, Barassa e Hassa. Senza alleanze con capi tribali, il generale inoltre non avrebbe potuto conquistare la mezzaluna petrolifera e il sud della Libia: ed è stata la sua alleanza con le tribù a Tarhuna che gli ha aperto l’area a sud-est di Tripoli da cui è partito l’attacco alla capitale, ricorda Pargeter.

Le tribù e i loro interessi

La Libia è da sempre un insieme di tribù e di clan –  per l’esattezza 140 – più che una nazione. Ognuno controlla una parte più o meno piccola del territorio nazionale, ed hanno interessi più o meno forti nell’estrazione delle risorse naturali del Paese. Senza considerare le rivalità (non tanto di carattere religioso: sono tutte sunnite) storiche, ed una certa predisposizione a cambiare costantemente alleanze.

I Warfalla, il clan più numeroso

Considerata la più numerosa della Libia – un milione di persone su una popolazione complessiva di sei – la tribù dei Warfalla è stata una delle prime a rivoltarsi contro Gheddafi nel 2011, dopo averlo a lungo appoggiato. Originari di Misurata, sono disseminati soprattutto nell’est del Paese, dove infatti sono tra i gruppi tribali che hanno stretto un’alleanza con Haftar, in controllo della parte orientale della Libia. Nel 1993 i Warfalla – con il sostegno di un’altra tribù, i Magarha – provarono a realizzare un colpo di stato contro Gheddafi, chiedendo maggiore rappresentanza nel governo. Il golpe fallì, molti suoi membri furono uccisi, imprigionati o esiliati, ma i Warfalla sono rimasti importanti soprattutto perché hanno potuto contare su una forte presenza all’interno dell’Esercito libico. Sono divisi in sei sottoclan, che talvolta hanno avuto dei dissidi tra loro.

I Magarha, alleati ma non troppo

La seconda tribù più numerosa del Paese, originaria del sud ma nel tempo spostatasi sulla costa, visto il suo crescente ruolo politico già durante l’era Gheddafi. Fino agli anni ’90 il loro leader Abdel Salam Jalloud era considerato il secondo uomo più importante del Paese dopo Gheddafi. Ma i rapporti tra l’uno e l’altro si incrinano nel 1990 e Jalloud e la tribù dei Magarha si uniscono al tentativo di colpo di Stato portato avanti dai Warfalla. Una volta fallito il golpe, i Magarha più dei Warfalla sono stati in grado di mantenere rapporti più o meno normali con il Colonnello.

I Qadhadhfa, che sperano in Seif

Sono la tribù da cui proveniva Gheddafi, una delle più esigue del Paese, e fino al 1969, storicamente non molto potente. La loro roccaforte è la città natale del Leader, Sirte, negli anni scorsi presa di mira dall’Isis. Durante l’era Gheddafi la tribù si è arricchita molto, tuttavia molti suoi membri nel 2011 si sono uniti ai movimenti di rivolta.

Attualmente il capo del clan viene considerato Seif al-Islam

figlio del Colonnello, che molti analisti danno in crescita tra i possibili leader di una “nuova Libia”.

Gli Zuwayyah, la forza emergente

Storicamente una tribù che abita aree rurali nell’est del Paese, in Cirenaica, il suo ruolo è cresciuto nel 2011, vista la loro collocazione all’interno delle regioni petrolifere libiche che permetteva loro di usare il petrolio come leva politica. Tra i più strenui oppositori di Gheddafi durante il 2011, sono considerati un gruppo tribale non molto numeroso ma ben armato. Nell’est ci sono anche i Ferjan, la tribù di provenienza del generale Haftar e con cui gli Zuwayyah hanno saputo mantenere ottimi rapporti.

Nove anni dopo la caduta di Gheddafi, le stesse tribù, frazionatesi in milizie  e sotto gruppi, sono quelle che dettano legge nel non-stato libico, nel quale i capi di governo sono solo figure di contorno, buone per presenziare ad una conferenza internazionale ma privi di autorità, e autorevolezza, anche rispetto ai sindaci, emanazione diretta delle tribù. Governare questo caos attraverso lo strumento militare esterno è pura follia. Chi di guerra e strategie militari se ne intende, conviene che per provare a percorrere questa strada, vorrebbe dire impegnate, in tempi che si calcolano in anni, non meno di cinquantamila soldati, boots on the ground, mettendo in conto perdite significative, insostenibili per le opinioni pubbliche interne.

Mettere ordine in uno Stato fallito, qual è oggi la Libia, è un’impresa titanica, far rispettare i diritti umani basilari è una missione impossibile. O meglio, potrebbe essere possibile se ci fosse davvero la volontà della comunità internazionale di stabilizzare la Libia, disarmare le oltre 220 milizie e tribù in armi, dar vita ad un vero esecutivo di riconciliazione nazionale, mettere d’accordo gli appetiti di quanti posizionano se stessi, fanno e disfano alleanze, appoggiano questo o quel signore della guerra, con un unico obiettivo: spartirsi le fette più grosse della appetita torta petrolifera libica.

 

 

 

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