La rabbia esplode nella notte. Ed è una rabbia permeata di dolore ma lucida, razionale, determinata. E’ la rabbia di un popolo esausto, stordito ma non arreso, che esige verità e giustizia per le vittime dell’esplosione di martedì scorso nel porto di Beirut. Ma verità e giustizia non si conciliano con quel “regime corrotto e criminale” di cui un popolo in rivolta chiede la fine. E nel mirino dei manifestanti, che nella notte sono di nuovo scesi in piazza dando vita a violenti scontri con la polizia, c’è soprattutto il governo guidato da Hezbollah e dal primo ministro Hassan Diab. Le proteste si sono concentrate davanti alle sedi di governo e Parlamento, nel cuore della capitale libanese. I manifestanti hanno bersagliato le forze di sicurezza con lanci di sassi e hanno dato fuoco a pneumatici, urlando la propria rabbia contro l’élite politica del Paese già alle prese con una devastante crisi economica. Gli agenti hanno respinto il corteo disperdendo la folla con lanci di lacrimogeni. “Il popolo vuole la caduta del regime” e “rivoluzione” sono le grida che si sono levate dai cittadini. Le forze di sicurezza hanno fatto sapere che sono una ventina i feriti al termine degli scontri.
La rabbia e il dolore
Intanto il governo, finito nuovamente nel mirino delle contestazioni già poche ore dopo la deflagrazione, parla di un “crimine efferato di negligenza”, con il ministro degli Esteri, Charbel Wehbé, che ha promesso un’inchiesta indipendente con la creazione di un comitato di inchiesta ad hoc per far luce su quanto accaduto. “Hanno solo quattro giorni al massimo per fornirci un rapporto dettagliato sulla responsabilità, per dirci come, chi, cosa, dove. Su questa base ci saranno decisioni giudiziarie – ha dichiarato alla radio francese Europe 1 – Prendiamo tutto al livello più elevato di serietà. Tutti i ministri hanno insistito, colui che risulterà colpevole di questo crimine efferato di negligenza verrà punito. Ve lo prometto”.
Il ministro degli Interni, Mohamed Fahmi, ha annunciato l’intenzione di dimettersi nel caso in cui la commissione d’inchiesta non individui i responsabili: “Mi dimetterò nel caso in cui la commissione d’inchiesta non indichi in particolare i nomi di tre individui in modo da ritenerli responsabili”, ha detto all’emittente al-Hadath.
Ma un’opinione pubblica delusa da una classe politica giudicata corrotta non mostra alcuna fiducia sulla possibilità di arrivare alla verità. Uno scetticismo condiviso dai quattro ex primi ministri – tra cui Saad Hariri – che hanno chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta internazionale. A loro si sono uniti giovedì anche lo storico leader druso Walid Jumblatt e il capo delle Forze Libanesi cristiane Samir Geagea, oltre ad Amnesty International e Human Rights Watch. Una possibilità respinta dal partito che guida l’alleanza di governo, Hezbollah, secondo quanto fatto trapelare da fonti interne.
Parla Nasrallah
E nel tardo pomeriggio, prende la parola il personaggio più atteso, il capo di Hezbollah: Hassan Nasrallah. Con mascherina anti-Covid d blu, Nasrallah parla ai libanesi dalla tv di Hezbollah, al-Manar E in diretta televisiva, il capo del Partito di Dio sciita afferma h che il magazzino che è esploso nel porto di Beirut, uccidendo più di centomila persone, non conteneva nessuna delle armi dell’organizzazione.
“Diversi personaggi e gruppi che si oppongono Hezbollah hanno iniziato a diffondere menzogne sul fatto che l’hangar è un deposito di armi, missili o munizioni” per il gruppo, ha detto Nasrallah, aggiungendo che questo è stato fatto per “terrorizzare il popolo libanese e dipingere gli Hezbollah come responsabili del disastro che li ha colpiti”. Nasrallah dice che la sua organizzazione non aveva armi di alcun tipo immagazzinate nel porto e aggiunge che “i media internazionali lo sanno”. E anche la versione ufficiale lo ha chiarito. “Noi come Hezbollah sappiamo forse di più su quello che succede nel porto di Haifa di quello che succede nel porto di Beirut”. E ancora: Nego totalmente, categoricamente che nel porto ci sia qualcosa, né un deposito di armi, né un deposito di missili (…) né una bomba, né un proiettile, né nitrato di ammonio” che appartengano a Hezbollah, martella Nasrallah.
Il capo di Hezbolla si difende attaccanto: “Questa campagna mira a rendere Hezbollah responsabile” di questa esplosione. È ingiusto; contiamo vittime tra i nostri sostenitori”, incalza Nasrallah, denunciando le “bugie” e le “falsificazioni” lanciate da alcuni oppositori politici e nei media e attraverso le reti a loro riferite. Poi veste i panni del “pacificatore” Ha esortando i leader politici a “mettere da parte le differenze” e “elevarsi al di sopra di esse”.
I soccorsi
Nel frattempo, si continua a cercare tra le macerie nella speranza di trovare superstiti. Secondo la Croce Rossa libanese mancano ancora all’appello un centinaio di persone. Al lavoro, nella zona del porto, ci sono soccorritori e militari, ruspe e gru: “Stiamo facendo tutto il possibile perché crediamo possano ancora esserci persone vive intrappolate sotto le macerie, ma sinora abbiamo trovato solo resti di persone irriconoscibili”, ha detto uno dei soccorritori al lavoro senza sosta da 48 ore. E poi ha ammesso: “Alcuni Paesi stranieri stanno mandando soccorsi, ma potrebbe comunque essere troppo tardi per chi è intrappolato sotto le macerie”. E un nuovo incendio, di dimensioni ridotte, è scoppiato nella zona dell’esplosione.
Sul piano internazionale, la Francia ha organizzato una videoconferenza dei donatori che si terrà domenica e alla quale parteciperanno anche i vertici delle istituzioni Ue, secondo quanto annunciato da un portavoce della Commissione europea.
Le Nazioni Unite stanzieranno almeno 9 miliardi di dollari per aiutare gli ospedali di Beirut nelle operazioni di primo soccorso e per migliorare la capacità di accoglienza, come annunciato dal portavoce Farhan Haq spiegando che i fondi serviranno per le unità di terapia intensiva e forniranno kit di pronto soccorso, ventilatori, medicine e dispositivi medici. Haq ha poi spiegato che le Nazioni Unite stanno facendo una stima dei danni e delle necessità conseguenti all’esplosione e lanceranno un appello per raccogliere i fondi. “Di sicuro, il Libano avrà aiuti sostanziosi, da quelli per il sistema ospedaliero alle scorte di cibo, fino alla copertura dei costi per la ricostruzione a lungo termine”, ha aggiunto.
Aoun e l’interferenza esterna.
Nel mirino dei manifestanti, il presidente libanese, Michel Aoun, non esclude l’ipotesi di un’interferenza esterna come causa delle esplosioni di martedì scorso, pur sottolineando che l’ipotesi principale resta quella di materiale mal immagazzinato.
“La causa delle esplosioni ancora non è stata determinata dato che esiste la possibilità che si sia prodotta un’interferenza esterna attraverso un missile, una bomba, o una qualsiasi altra azione”, ha affermato Aoun parlando con la stampa, citato dall’emittente libanese Mtv.Il presidente ha rivelato quindi di aver chiesto al suo omologo francese Emmanuel Macron, che la Francia fornisca al Libano “le immagini aeree dell’esplosione. “Se non le hanno, chiederemo ad altri paesi per determinare se si sia trattato di un attacco esterno”.
Al tempo stesso, Aoun ha respinto le richieste di un’inchiesta internazionale sulle esplosioni di martedì, compresa quella del presidente francese Emmanuel Macron durante una visita in Libano. Lo scrive il sito del quotidiano An Nahar. Le richieste per un’inchiesta internazionale puntano a “distorcere la verità”, ha aggiunto Aoun, sottolineando che ogni verdetto perde di significato se richiede troppo tempo per essere emesso. E sulla stessa linea, no a una inchiesta internazionale, Aoun ritrova il suo alleato Nasrallah.
Mani pulite sugli aiuti
Un regime di corrotti non deve mettere le mani sui soldi che arriveranno per la ricostruzione. La richiesta dei manifestanti viene mediaticamente amplificata da Rami Khouri, uno dei più autorevoli e indipendenti giornalisti libanesi. Scrive Khouri in un articolo per Internazionale: “La maggior parte dei libanesi non crede che il governo sia in grado di fare luce sulla tragedia, individuando i funzionari (presenti e passati) che hanno ricoperto un ruolo nella vicenda, e nemmeno di gestire con efficienza le centinaia di milioni di dollari di aiuti umanitari e fondi per la ricostruzione che arriveranno nel paese. Per questo propongo alle autorità, alle organizzazioni e ai cittadini libanesi di sfruttare questo momento per prendere la strada delle riforme, una via che tutti dicono di voler percorrere. Le riforme strutturali, politiche, fiscali e amministrative sono una priorità per il Libano e per la maggior parte degli stati arabi in cui i cittadini subiscono gli effetti del malgoverno. L’emergenza umanitaria dovrebbe sommarsi alla crisi politica e a quella economica per creare un’opportunità di innovazione. Il mio suggerimento – prosegue Khouri – è che gli aiuti umanitari e i fondi per la ricostruzione siano gestiti da un nuovo consorzio formato da funzionari governativi, ong e fondazioni umanitarie credibili, da alcune organizzazioni internazionali e da individui dalla professionalità riconosciuta. La loro partecipazione è indispensabile, perché i governi libanesi degli ultimi trent’anni hanno dimostrato di essere incapaci o poco disposti a servire il popolo. Bisogna trovare un nuovo approccio per la gestione del denaro pubblico, e considerate le condizioni precarie in cui versa il paese, è fondamentale agire subito.
Le ong, le università, i professionisti e le istituzioni private libanesi sono molto affidabili, e stanno già preparando una serie di piani per gestire lo stato e la società all’interno di un sistema politicamente riformato. La promessa di aiuti umanitari può essere sfruttata per accelerare questo sviluppo, costringendo lo stato a condividere il processo decisionale con la cittadinanza e a rispondere velocemente alle necessità del paese. La condivisione delle decisioni sulla la gestione degli aiuti spingerà i potenziali donatori a impegnarsi, eliminando il timore che i soldi vengano rubati o usati impropriamente. Così sarà possibile realizzare velocemente i progetti di cui la popolazione ha bisogno per sopravvivere. Negli ultimi anni lo stato non ha fatto altro che sprecare tempo, rifiutandosi di risolvere il problema dei rifiuti e dell’elettricità… La mia proposta servirebbe anche a scuotere il sistema largamente disfunzionale degli aiuti e delle ong internazionali, che offrono assistenza ad alcune persone bisognose ma che in generale permettono a stati decrepiti di proseguire la loro opera fallimentare e corrotta mentre i funzionari accumulano ricchezze senza avere alcun merito. I donatori dovrebbero richiedere questo tipo di controllo sul modo in cui verranno spesi i loro soldi. Se i governi arabi si rifiuteranno di garantirlo, i donatori dovrebbero inviare il denaro direttamente alle ong e ad altre componenti della società che sappiano usarlo al meglio. Il vantaggio di quest’idea è la possibilità di combinare il desiderio dei cittadini arabi per una riforma dello stato con la volontà della comunità internazionale (spesso manifestata ma raramente concretizzata) di ottenere lo stesso risultato. Se riusciranno a lavorare insieme, lo stato sarà costretto ad adeguarsi, e questo porterà benefici per tutti. Inoltre il meccanismo permetterebbe ai cittadini arabi, per la prima volta nella storia, di avere un peso sulla politica dei loro paesi, ottenendo risultati mai raggiunti dai parlamenti nazionali”.
Oxfam in campo
“Beirut e il Libano sono di fronte a una sfida enorme per i mesi a venire – afferma Silvana Grispino, responsabile Libano per Oxfam Italia – Il paese era già in emergenza economica e sociale prima di questo disastro, con la moneta che ha perso circa l’80% del suo valore, l’aumento drammatico dei casi di coronavirus, gli ospedali già sotto pressione. Chi ha perso la casa non avrà soldi per ricostruire, beni essenziali, come grano o medicine, saranno presto insufficienti, visto che il porto di Beirut, principale punto di stoccaggio e approvvigionamento, è stato raso al suolo, e con esso ben 3 ospedali fortemente danneggiati.”
“Non possiamo poi dimenticare che il Libano, che pure è esteso solo quanto l’Abruzzo, ospita il maggior numero di rifugiati pro capite al mondo: 1 persona su 3. – aggiunge Grispino – Si tratta di circa 1,5 milioni di persone in fuga dal conflitto siriano. L’Europa – l’Italia per prima – dovrebbe favorire corridoi umanitari stabili e regolari .La devastazione subita è inimmaginabile, la strada per la ripresa lunga e difficile. Sarà prezioso l’aiuto di ciascuno per portare le famiglie di Beirut fuori dalle macerie, offrendo una chance di futuro e ricostruzione”.
Un futuro che non può essere in ostaggio di corrotti e malfattori che hanno distrutto il Paese dei Cedri.