Italia e stipendi: il divario con l’Europa e il rischio di un futuro senza giovani
Top

Italia e stipendi: il divario con l’Europa e il rischio di un futuro senza giovani

L'Italia ha gli stipendi reali più bassi tra i grandi Paesi europei, con una media inferiore del 15% rispetto alla UE. La crisi demografica e salariale rischia di aggravarsi, mentre altri Paesi, come il Portogallo, adottano misure per trattenere i giovani

Italia e stipendi: il divario con l’Europa e il rischio di un futuro senza giovani
Preroll

redazione Modifica articolo

20 Febbraio 2025 - 15.16 Culture


ATF

Tra i grandi Paesi europei, l’Italia è quello con gli stipendi reali più bassi. L’ultima indagine Eurostat non lascia spazio a dubbi: in media, gli stipendi italiani sono inferiori del 15% rispetto a quelli degli altri Paesi dell’Unione europea. Il report considera anche nazioni geograficamente europee ma non appartenenti all’UE, come la Svizzera. I dati si riferiscono al 2023 e rappresentano una risposta netta a chi sostiene che i salari nominali bassi siano compensati da un costo della vita più contenuto rispetto ai Paesi più ricchi. L’idea secondo cui “gli stipendi all’estero sono più alti, ma la vita costa di più” non regge.

L’indagine di Eurostat utilizza un parametro che già tiene conto del costo della vita in ciascun Paese: il Purchasing Power Standard (PPS), una valuta artificiale che permette un confronto preciso tra nazioni. Con mille PPS in Italia, si possono acquistare gli stessi beni e servizi che si comprerebbero con mille PPS in Germania o in qualsiasi altro Paese analizzato. Lo studio si concentra sulla retribuzione di una persona single senza figli, al netto del cuneo fiscale, che in Italia è tra i più pesanti: solo quattro Paesi OCSE hanno una tassazione sul lavoro più alta.

Leggi anche:  A Parigi vertice europeo sull'Ucraina per non essere scavalcati dal prossimo patto Trump-Putin

Nel 2023, la retribuzione media nell’UE è stata di 27.500 PPS, mentre in Italia si è fermata a circa 24.000 PPS, registrando un divario del 15%. La classifica degli stipendi in Europa vede la Svizzera al primo posto con oltre 47.000 PPS di stipendio netto medio, seguita dai Paesi Bassi con quasi 39.000 PPS e dalla Norvegia con circa 36.300 PPS. Subito dopo troviamo il Lussemburgo, l’Austria e la Germania, dove il reddito medio annuo è di quasi 35.000 PPS. L’Italia, con i suoi 24.051 PPS, è superata da Paesi come Turchia, Belgio, Cipro, oltre che da Spagna, Francia e Germania, tre nazioni demograficamente simili alla nostra. Il gap con la Germania è del 45%, con la Francia del 18% e con la Spagna del 2%. La Svizzera, capolista, ha stipendi quasi il doppio rispetto all’Italia. Non sorprende, quindi, che molti italiani abbiano scelto di emigrare verso il Paese elvetico o in altre nazioni vicine per cercare opportunità migliori.

L’aspetto demografico non può essere ignorato. La popolazione italiana invecchia, il tessuto imprenditoriale si impoverisce e la produttività si riduce. Con questo scenario, è più probabile che la situazione peggiori piuttosto che migliorare, poiché ci saranno sempre meno lavoratori. La relazione tra stipendi e demografia può sembrare un paradosso: i giovani lasciano l’Italia perché i salari sono bassi, ma allo stesso tempo i salari rimangono bassi perché ci sono pochi giovani. La questione, però, non è solo economica. Meno lavoratori giovani significano una produttività inferiore e, di conseguenza, profitti più bassi per le aziende. In questo contesto, è improbabile che un’impresa possa aumentare gli stipendi a meno che non lo faccia per compensare l’inflazione. Il problema centrale è di quanto crescono gli stipendi rispetto all’aumento del costo della vita, un dato fotografato con precisione dal PPS di Eurostat.

Leggi anche:  Perché l’Europa è caduta nella trappola imperiale di Trump e Putin

Se le aziende non riescono a essere competitive perché hanno meno lavoratori o meno giovani tra le loro fila, rischiano di scomparire. La crisi demografica della popolazione si trasforma così in una crisi demografica delle imprese. Il risultato è evidente: non cala solo l’offerta di lavoratori, ma anche la domanda di impiego, perché ci sono sempre meno aziende in grado di assumere. Prima di chiudere definitivamente, è difficile che un’impresa possa offrire stipendi competitivi rispetto a quelli di altri Paesi.

A questo si aggiunge un altro fattore: l’invecchiamento della popolazione impatta anche il sistema fiscale. Con sempre più anziani, aumentano i costi per la sanità pubblica e per i servizi di assistenza. Nel frattempo, le pensioni basse richiedono interventi statali per sostenere spese quotidiane come i trasporti o l’aiuto domestico. Questi fondi devono essere reperiti in qualche modo, e la pressione fiscale continua a ricadere su imprese e lavoratori.

Per uscire da questo circolo vizioso, lo dimostra l’esempio interessante del Portogallo, dove il governo ha deciso di attuare una politica di detassazione per i giovani lavoratori, nel tentativo di frenare l’emigrazione e stimolare l’economia. Nel contesto portoghese, le cause della fuga dei cervelli sono simili a quelle italiane: stipendi bassi e affitti elevati, con l’aggravante dell’arrivo di pensionati benestanti attirati dai vantaggi fiscali. Per invertire la tendenza, il governo ha avviato un piano per rendere il Portogallo più attrattivo per i giovani, prevedendo forti agevolazioni fiscali per dieci anni. Il primo anno è completamente esentato dalle tasse, dal secondo al quarto anno si pagherà solo il 25% delle imposte, dal quinto al settimo il 50%, mentre dall’ottavo al decimo l’esenzione scenderà al 25%.

Native

Articoli correlati