Dai dazi alla nuova politica economica americana: il parere dell’economista
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Dai dazi alla nuova politica economica americana: il parere dell’economista

Luigi Bosco, docente presso il Dipartimento di economia politica e Statistica dell’Università di Siena, si è espresso in merito alla nuova linea politica di Trump, che sta suscitando apprensioni in Europa e non solo.

Dai dazi alla nuova politica economica americana: il parere dell’economista
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Agostino Forgione Modifica articolo

10 Febbraio 2025 - 12.19 Culture


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L’elezione di Trump come presidente degli Stati Uniti d’America sembra aver smosso i timori di tutto l’occidente sul futuro dei rapporti diplomatici internazionali. Il tycoon, dopo essere uscito dall’OMS e aver rescisso importanti accordi internazionali quali ad esempio quelli sul clima di Parigi, agli occhi di molti pare essere una mina vagante di cui è impossibile conoscere la prossima mossa. A suscitare più apprensione, in Europa e non, sono tuttavia le nuove politiche sui dazi, che stanno lasciando sulle spine i mercati di mezzo mondo. Abbiamo discusso di tutto ciò con Luigi Bosco, docente di economia politica e international economics presso il Dipartimento di economia politica e Statistica dell’Università di Siena, chiedendogli una sua chiave di lettura.

In prima battuta il prof. Bosco tiene a sottolineare come Trump sia figlio del contesto geopolitico in cui viviamo e, nella fattispecie, degli effetti deregolativi che la globalizzazione ha prodotto e sta producendo. Se quest’ultima è stata generalmente associata a una maggiore efficienza in termini economici, quanto viene spesso omesso è che importando dei beni si importano – e abbracciano – anche le leggi del paese che li ha prodotti. In sunto e semplificando, se in un paese il lavoro minorile è vietato, importando un bene prodotto in uno stato in cui non lo è oltre al bene importiamo e foraggiamo anche il sistema che lo ha prodotto. “Dietro le posizioni di Trump c’è anche quest’idea, che se noi non regoliamo a livello internazionale, coinvolgendo tutti i paesi, chi regola non ottiene i risultati desiderati ma sostiene solo dei costi” afferma. Da ciò l’inacutirsi del divario sociale che, inevitabilmente, comporta l’impoverimento della classe media. Un meccanismo alla base di fenomeni come la Brexit e delle varie declinazioni dei partiti populisti, spiega.

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Da un punto di vista ideologico – afferma – Trump ha rotto un tabù. Il fatto che importiamo delle regole oltre a beni deriva dal free trade. Negi ultimi 30 anni i dazi del commercio sono caduti in quasi tutti i paesi, quando agli inizi di questo millennio si stabilì il principio della libera circolazione dei beni e la sua indiscutibilità e la Cina entrò nel WTO. Allora il termine “protezionismo” era quasi una parolaccia. Trump ha in parte sdoganato tutto ciò, giocando sulle contraddizioni della globalizzazione. Di nuovo, infatti, se è pur vero sia giusto che dei beni vengano prodotti da chi riesce a produrli meglio, ciò comporta delle conseguenze deregolamentative. Il capitalismo può funzionare solo se molto ben regolamentato, e oggi lo è sempre meno anche, ma non solo, a causa della globalizzazione”.

Gli chiedo se ogni forma di protezionismo sia sempre da repellere o esistano sue forme potenzialmente non deleterie. Questa la sua risposta: “Bisogna capire cosa si intende per protezionismo. Personalmente credo che l’ideologia del libero mercato si è dimostrata in parte non funzionare, non sempre i vantaggi hanno compensato gli effetti negativi. Se davvero vogliamo contrastare fenomeni come il riscaldamento globale dobbiamo capire che i beni non possono muoversi in maniera completamente libera al di là delle regole relative il contesto in cui sono state prodotte. Gli accordi non vincolanti, come quello di Parigi, a oggi non hanno funzionato. Per me il protezionismo non è una risposta, tuttavia l’approccio che stiamo adottando non sembra fornire soluzioni convincenti proprio perché la globalizzazione ha finito col diminuire le regole esistenti”. Nello specifico, vagliando la risposta di Trump, afferma che “Non è convincente, perché non parte da questi assunti bensì da altri che sono completamente e diametralmente opposti. Egli, a tal proposito, sostiene la necessità di una minore regolamentazione, come in materia ambientale”.

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Bosco analizza poi quella che è la strategia comunicativa e politica del neo-presidente: “Proprio come negli assunti della teoria dei giochi Trump sa che la minaccia è uno strumento con cui si può ottenere di più nelle negoziazioni, in particolar modo se queste sono credibili. Il personaggio che si è costruito, forte e non necessariamente completamente razionale, riesce a farlo percepire come più minaccioso di altri. Ciò proprio perché sa di essere percepito come imprevedibile”. Partendo da questo assunto continua: “Per tali ragioni credo che quella dei dazi sia principalmente una minaccia rivolta agli altri paesi. Col Messico ha infatti ottenuto quello che voleva, ovvero maggiori controlli alle frontiere, e magari otterrà qualcos’altro col Canada. Secondariamente credo voglia minacciare le stesse imprese americane, perché se queste hanno paura che prima o poi Trump introduca dei dazi, saranno meno propense a delocalizzare, approfittando del divario legislativo che esiste tra i vari stati. Tuttavia, c’è da ammettere che già solo con una minaccia ha ottenuto dal Messico quanto desiderava”.

Gli domando cosa pensi sulle affermazioni secondo cui la bilancia commerciale degli scambi tra Usa ed Europa sia fortemente sbilanciata verso la Seconda. Trump, infatti, sostiene che noi europei compriamo molti meno beni dagli Stati Uniti rispetto a quanti ne acquistano loro da noi. “Quando si tratta di scambi commerciali sono dei veri delinquenti. Non comprano le nostre auto, non comprano i nostri prodotti agricoli, non comprano niente. In compenso ci danno le loro Mercedes, le loro BMW, le loro Volkswagen. Milioni e milioni di auto”, queste le parole a riguardo ovviamente rilanciate da tutti i media europei.  

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Così Bosco si esprime: “In realtà se un paese importa più di quanto esporta vuol dire che questi, in fondo, sta consumando più di quello che produce, vivendo al di sopra dei propri mezzi grazie al debito. L’America si sta indebitando in quanto la bilancia commerciale è sostenuta tramite l’afflusso di capitali esteri. Molti di questi sono acquisti di titoli di stato statunitensi, tant’è che alcuni rintracciano la vera ragione del deficit in un risparmio troppo basso”.

Poi continua: “In pratica loro investono più di quanto risparmiano. Se dunque uno stato si indebita, è inevitabile che sul mercato internazionale ciò si traduca in un bilancio commerciale in negativo. Tale scompenso, tuttavia, difficilmente può essere arginato con l’introduzione di dazi”. In conclusione afferma: “Sono abbastanza d’accordo con chi sostiene che tutto ciò sia una minaccia più che una politica reale. Più dei dazi, dunque, avremmo bisogno di modificare il commercio internazionale, introducendo più regole e trasparenza. Un esempio sarebbe implementare delle etichette sociali e ambientali a corredo dei vari beni prodotti”.

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