Autonomia differenziata: sfide e conseguenze per l'unità nazionale e il bene comune
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Autonomia differenziata: sfide e conseguenze per l'unità nazionale e il bene comune

Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari, da tempo osserva e studia il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese

Autonomia differenziata: sfide e conseguenze per l'unità nazionale e il bene comune
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23 Giugno 2024 - 23.48


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di Antonio Salvati

Dopo l’approvazione in via definitiva dalla Camera del disegno di legge sull’autonomia differenziata, è letteralmente esploso un dibattito dai toni decisamente concitati. Qualcuno ha sostenuto che era ora, considerato l’indifferenza che regnava attorno alla gestazione di una riforma che mina seriamente l’unità sostanziale del nostro paese. Al di là dei toni decisamente concitati e delle tifoserie già schieratesi, il dibattito sembra caratterizzato dall’esposizione di contenuti piuttosto confusi, per non dire incongrui. Anche in questa vicenda affiorano vistose incoerenze con le posizioni assunte sul tema del federalismo e del regionalismo differenziato dai partiti nel passato più o meno recente Pertanto, urge un importante sforzo ed impegno culturale per consentire agli italiani di meglio comprendere cosa potrebbe accadere aprendo la strada alla concessione di poteri molto maggiori e di risorse finanziarie assai rilevanti alle regioni che hanno avanzato la richiesta di autonomia differenziata. Piaccia o no, occorre prestare ascolto ai tanto vituperati esperti, i “professoroni”, ossia a coloro che conoscono e studiano la materia da tempo, non agli imbecilli – come direbbe Umberto Eco – che imperversano nel web (anche in diversi studi televisivi). Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari, da tempo osserva e studia il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese, sintetizzando i principali contenuti dei suoi studi in pubblicazioni non solo accessibili agli addetti ai lavori. Alcuni anni fa, in un agile volume Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale grande (Laterza, Bari 2019, pp. 56, € 10,00), analizzava le richieste di maggiore autonomia di alcune regioni e le conseguenze che esse potrebbero provocare per il benessere dei cittadini italiani e la stessa unità sostanziale del paese. Questioni sulle quali la grandissima maggioranza dei cittadini italiani non è affatto informata.

La Costituzione italiana vigente, al terzo comma dell’articolo 116, prevede che possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario ulteriori competenze in 23 materie elencate all’articolo 117: tre fra quelle di esclusiva potestà statale e le venti di potestà legislativa concorrente. Dalla revisione costituzionale del 2001 – promossa dalle forze del centrosinistra; fu infatti Massimo D’Alema, leader dei Democratici di Sinistra, a introdurre i principi del federalismo nel titolo V della seconda parte della Costituzione – che ha introdotto questa possibilità, vi sono state diverse iniziative regionali per ottenere maggiore autonomia. Nel periodo più recente, tuttavia, la questione ha ripreso slancio. Infatti, l’autonomia differenziata fu originata dalle richieste delle giunte regionali di Veneto e Lombardia – sulle quali non è possibile qui dare conto compiutamente – di acquisire tutte le competenze possibili mantenendo nel loro territorio una parte di quello che definiscono il loro residuo fiscale, ossia ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo Stato a loro favore. Il tema del “residuo fiscale” non è certamente nuovo. Esso appartiene – ricorda Viesti – all’armamentario politico-ideologico costruito, sin dagli anni Novanta del XX secolo, dalla Lega Nord, con le sue battaglie contro “Roma ladrona” e il Mezzogiorno, e per la “riconquista” dei soldi del Nord. La questione ha però conosciuto uno slancio del tutto nuovo, come si è visto, negli ultimi anni dopo essere usciti dalle priorità del periodo del Covid.  Insieme all’insistenza e rinnovata veemenza del “teorema meridionale”, cioè sulla descrizione del Mezzogiorno come terra della cattiva amministrazione e dello spreco di grandi risorse pubbliche. In altri termini, un’ottima giustificazione per la riduzione dell’impegno nazionale a favore del Sud: politiche pubbliche che destinano risorse al Mezzogiorno sono inutili (perché vengono sprecate) o addirittura dannose. E qui occorre fare un inciso. La letteratura scientifica e la storiografia – e tra questi quelli recenti dello storico Filippo Sbrana – hanno dimostrato che l’unico periodo del Novecento in cui davvero la distanza economica tra Nord e Sud si è ridotta, seppur gradualmente, è stato quando ci fu una gestione centralizzata degli investimenti in favore del Sud. Ossia la prima fase in cui fu operativa la Cassa per il Mezzogiorno, dalla sua fondazione nel 1950 fino alla prima metà degli anni Settanta. In quei vent’anni fu guidata da un consiglio di amministrazione composto da tecnici indipendenti dalla e nello stesso periodo il prodotto interno lordo pro capite delle regioni meridionali passò dal 50 a quasi il 60 per cento di quello del resto del paese. Questo sviluppo virtuoso, tuttavia, si interruppe a partire dagli anni Settanta, quando le regioni del Sud ottennero di essere coinvolte sempre più direttamente nella gestione della Cassa, la quale subì sempre più condizionamenti e pressioni della politica, con conseguenti clientelismi che resero il meccanismo inefficiente.

Ma torniamo al residuo fiscale. Esso non è un dato oggettivo. Viene determinato sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa, quel territorio riceve meno spesa rispetto alle tasse versate; «ciò significa – osserva Viesti – che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore». Il calcolo non è affatto semplice; può essere realizzato per le sole amministrazioni pubbliche o includendo anche le imprese pubbliche. Il gettito fiscale può essere determinato in misura relativamente agevole, «anche se vi possono essere differenze sensibili fra il luogo in cui il reddito è prodotto e quello in cui il prelievo è riscosso: ad esempio le aziende petrolifere che lavorano in Sicilia pagano le tasse a Roma; e lo stesso accade per molti stabilimenti del Mezzogiorno che fanno capo ad imprese del Nord. L’attribuzione della spesa è assai più difficile; a seconda dei diversi criteri con cui viene realizzata la stima, i risultati sono anche sensibilmente differenti». Per completezza occorre aggiungere la questione dei cosiddetti LEP. Per consentire a tutti gli italiani di godere degli stessi diritti di cittadinanza, ed in particolare dello stesso livello essenziale delle prestazioni pubbliche più importanti, la Costituzione prevede all’articolo 117 che lo Stato abbia l’onere della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. L’articolo 120 della Costituzione, richiede poi che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. L’importanza dei LEP è ribadita con forza anche nella legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale.

In un recente volume, Contro la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale grande (Laterza, Bari 2023, pp. 192, € 14,00), Viesti riconosce che il regionalismo italiano funziona male. Ma la soluzione non sta nella proposta governativa di un’autonomia regionale differenziata. Il testo analizza il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese. È «quindi un libro sul potere e sui diritti dei cittadini in Italia». Attenzione, non si tratta solo di questioni giuridiche o tecnico-amministrative. Tutt’altro: si tratta di temi con una grande valenza politica, «che influenzano tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola». Per Viesti, molti sono i profili insoddisfacenti dell’attuale stato del decentramento politico e amministrativo in Italia: «i continui conflitti fra Stato e regioni sulle rispettive competenze, la debolezza di governo e Parlamento nel fissare i principi fondamentali dell’azione pubblica, le tendenze “sovraniste” delle regioni verso un accaparramento di quanto più potere possibile». Occorre ritessere pazientemente la tela del decentramento e delle sue regole, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e dei contesti nei quali le imprese operano. In realtà, come abbiamo visto il dibattito politico è condizionato dalle richieste di maggiori poteri e maggiori risorse da parte di alcune regioni ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Senza mezzi termini, Viesti ritiene che la proposta del governo in esame al Parlamento non è decentramento, bensì di una sostanziale “secessione dei ricchi”.

La parola “secessione” è usata per richiamare una separazione che, «seppure non di diritto, sarebbe nei fatti». Le regioni dotate di maggiori autonomie «si configurerebbero infatti come delle regioni-Stato, seppur formalmente ancora dentro la cornice nazionale. Esse godrebbero di poteri estesissimi e delle risorse per farvi fronte, anche se in modo differenziato fra di loro. Parallelamente, si avrebbe un depauperamento della capacità del governo e del Parlamento italiano di affrontare questioni vitali per i cittadini attraverso le politiche pubbliche ritenute più opportune. Ad essi rimarrebbero ritagli di competenze per ritagli di territori: l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco, confuso, inefficiente».

La secessione è dei ricchi per due motivi. Lo è in senso geografico, perché sono state le amministrazioni delle regioni a maggior reddito del paese ad avviare questo processo; quindi, all’interno dell’Italia le nuove regioni-Stato includerebbero inizialmente le comunità più ricche, con una cesura netta rispetto al resto del paese. All’obiezione che già oggi l’Italia mostra significative disparità territoriali è facile replicare: esse sono un dato di fatto che l’intero paese, a norma della Costituzione, cerca di contrastare; «con l’autonomia regionale differenziata diverrebbero disparità previste dalle norme». Lo è in senso economico-sociale, poiché il processo scaturisce dall’aspirazione degli amministratori di queste comunità di poter disporre di una parte del gettito delle tasse pagate nelle loro regioni superiore a quanto oggi lo Stato spende nei loro territori. Risorse che, a norma di Costituzione, devono essere utilizzate per fornire essenziali servizi pubblici, «e quindi garantire diritti di cittadinanza, a tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito e dal luogo in cui vivono». In Italia vigerebbe una sorta di ius domicilii, che lega i diritti alla residenza.

L’Italia sicuramente necessita di un paziente processo di riscrittura dei suoi assetti decentrati, «senza nostalgie centralistiche o fughe in avanti». Le richieste di maggiore autonomia così come presentate dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna dovrebbero essere respinte; «l’articolo 117 della Costituzione rivisto, il terzo comma dell’articolo 116 eliminato, o quantomeno radicalmente trasformato (come proposto da una legge di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, pure attualmente in discussione in Senato)». Ne va del futuro dell’Italia nei prossimi decenni.

«L’autonomia differenziata è un problema che riguarda tutto il Paese, e quindi la Chiesa italiana nel suo insieme», ha sottolineato il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, aggiungendo «che alcuni progetti legislativi rischiano di accrescere il gap tra territori oltre che contraddire i principi costituzionali. È in gioco il bene comune che può e deve essere promosso sostenendo la partecipazione e la democrazia». Recentemente il vescovo e teologo Bruno Forte ha ricordato che «nessun cittadino è un’isola, né lo sono le componenti locali della nostra Italia, e a nessuno è lecito anteporre egoisticamente il proprio bene al bene comune». Sarà tutelata nell’eventuale attuazione della riforma proposta l’urgenza di coniugare il bene di ciascuno e delle singole parti col bene di tutti?

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