Nel mondo 40 milioni di schiavi: il razzismo giustifica la segregazione

Le drammatiche cifre dell'Onu non comprendono i lavoratori sfruttati e poverissimi. Le radici di un problema culturale e sociale.

Schiavitù oggi
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Mario Giro Modifica articolo

27 Ottobre 2019 - 16.47


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Se ne parla sempre di più, anche a proposito dei centri di detenzione in Libia o delle campagne italiane in mano alle agromafie: gli schiavi esistono ancora. Nel mondo, secondo stime ONU, sono 40 milioni. Schiavi veri, venduti e comprati: questa cifra non considera la servitù temporanea, il lavoro iper-sfruttato e tante altre forme di asservimento che farebbe lievitare i numeri. Quasi 16 milioni sono coloro costretti ai lavori forzati in mano a dei privati (singoli o imprese) ; circa 5 milioni quelli (ma soprattutto quelle) ridotti a schiavitù sessuale; 4 milioni gli schiavi di una amministrazione pubblica o di uno Stato. Inoltre vi sono 16 milioni circa di persone (anche in questo caso prevalentemente ragazzine e donne) costrette a matrimoni forzati e tenute segregate a vita. Sappiamo della compravendita di schiavi in Libia. Ma si aggiungono altri paesi dove ciò è possibile, soprattutto in Africa e Asia orientale. Il lavoro schiavo è diffuso ovunque ma particolarmente in America Latina e Medio Oriente. 

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Considerata una piaga della civiltà umana, la schiavitù è stata oggetto di dibattito negli ultimi secoli ed al centro di eventi storici importanti. La guerra di secessione americana, la lotta per l’indipendenza delle colonie dell’America meridionale, la storia di Haiti: sono alcuni esempi di come la lotta alla schiavitù sia entrata nella coscienza nazionale di molti Stati moderni. Eppure persiste. I motivi di tale resilienza sono quasi mai economici come si potrebbe pensare ma di tipo culturale. In alcuni casi si tratta di radici storico-politiche nel senso che la percezione dell’inaccettabilità del fenomeno non è sempre la stessa ad ogni latitudine. In America Latina l’abolizione della schiavitù e le indipendenze giunsero assieme, in un medesimo momento fondativo dei nuovi Stati sovrani. La fine dello schiavismo fu dunque inserita nel progetto nazionale e parallela all’affrancamento dalla corona spagnola. Ottenere l’appoggio degli schiavi, e con essi dei nativi, dei mulatti e di altre popolazioni assimilate, fu assolutamente indispensabile per Simon Bolivar e i suoi epigoni. Negli Stati Uniti ciò accadde (indipendenza 1776, abolizione 1865) anzi: il problema fu occultato e rimandato fino alla guerra civile e all’emancipazione voluta da Lincoln. Il medesimo processo avvenne nei Caraibi, salvo il caso di Haiti, che funse da precursore per i paesi latinoamericani. In Africa, al contrario, l’abolizione precedette di molto le indipendenze, poiché avviene in epoca coloniale. Venne applicata in maniera diversificata e spesso ambigua. In molti casi il mantenimento della condizione servile (vedi il Sahel) fu un modo surrettizio o mimetico per proseguire lo stato di schiavitù. Se con le abolizioni nei paesi a tradizione cristiana avvenne una svolta culturale pur con dovute clamorose eccezioni, nei paesi di cultura islamica venne utilizzata molta più tolleranza verso il fenomeno anche in tempi recentissimi.
Così la mentalità schiavista continua in molti casi a condizionare le relazioni sociali e la stessa identità etnica. In ogni caso la fine della Tratta (sia quella orientale che quella atlantica) non ha coinciso con la fine del fenomeno schiavistico che è rimasto presente in varie culture e in certi luoghi permane tollerato fino ad oggi. Infatti l’abolizione formale della schiavitù non ha eliminato ogni riferimento alla questione razziale nelle relazioni sociali, argomento a cui è strettamente legata. Si potrebbe dire che la schiavitù continua ad esistere perché sopravvive ancora una mentalità razziale. In certi casi sono stati utilizzati degli escamotage per giustificare quest’ultima, come la via dell’apartheid (“lo sviluppo separato”) e della segregazione, per esempio in Sud Africa e negli stati del sud degli Stati Uniti o nei paesi del Golfo.
Spesso il riferimento razziale è sottaciuto; altre volte si mimetizza. In America Latina la questione razziale si è spesso fusa con la questione sociale, identificando la fascia povera della popolazione tramite una derivazione razziale taciuta ma eloquente. Si tratta anche di un modo per giustificare – in un certo senso – la realtà persistente delle diseguaglianze tra esseri umani, un prerequisito dello schiavismo. Se negli Stati Uniti la norma era quella della “one drop rule” (bastava una sola goccia sangue nero per essere considerato tale) inserita nelle “leggi Jim Crow” (leggi segregazioniste di alcuni stati USA ), in America Latina si può parlare di una connessione “socio-razziale”. In Africa perdura l’irrisolta questione dei discendenti degli schiavi, ove lo status naturale o di sangue resta fissato senza che nessuna ascensione professionale possa davvero cancellarlo.
Nei paesi dove fu applicato, il fenomeno della segregazione si trasforma oggi in scelta abitativa urbana: i quartieri sono separati e tendenzialmente “mono-culturali” o “mono-razziali”, salvo eccezioni. Così la “matrice schiavista” resiste perché si giustifica razzialmente o socialmente, trasformandosi in forme anche acute di diseguaglianza considerate per lo più naturali.

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