In ricordo di Pietro Marzotto, capitalista etico
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In ricordo di Pietro Marzotto, capitalista etico

Se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e da suo padre Gaetano vivremmo in un paese tanto straordinario quanto invece orrendo e ingiusto purtroppo ora ci appare

Pietro Marzotto
Pietro Marzotto
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David Grieco Modifica articolo

26 Aprile 2018 - 19.04


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Mi preparavo da tempo, ma non è servito a niente. La morte di Pietro Marzotto mi addolora profondamente. Mi addolora come amico, come parente (è il nonno adorato di mia figlia Viola, alla quale ha dispensato tutta la tenerezza che aveva lesinato ai figli a causa del troppo lavoro), come comunista (non c’è stato capitalista più etico di lui) e soprattutto come italiano. Perché se la nostra classe padronale avesse preso esempio da lui e da suo padre Gaetano noi vivremmo oggi in un paese tanto straordinario quanto invece orrendo e ingiusto purtroppo ora ci appare.
Più di dieci anni fa, quando sua figlia Marina ed io andammo per la prima volta, quasi in incognito, a Valdagno, non credevo ai miei occhi.
In quella piccola valle nascosta tra le montagne e un tempo abbandonata da dio, trovai le case degli operai, le scuole per i figli degli operai, l’ospedale per gli operai, lo spaccio alimentare a chilometro zero per gli operai, le case di riposo per gli anziani, e le foto delle colonie estive, a Jesolo, per i figli degli operai. Per non parlare dello stadio interamente coperto, il primo in Italia, “perché non è giusto che gli operai debbano prendere la pioggia mentre il padrone sta seduto al riparo in tribuna”, e del sontuoso Teatro Rivoli, quello del Premio Marzotto, dove è passato persino il surrealista Duchamp, “perché la cultura è importante, molto importante”.
Questa insolita considerazione per gli operai e i figli degli operai veniva da suo padre Gaetano Marzotto, che all’indomani della fine della guerra disse con straordinaria semplicità che sarebbe scoppiata un’altra guerra, chiamata lotta di classe. Ma anziché predisporre misure ricattatorie e repressive nei confronti degli operai, il padre di Pietro Marzotto spiegò che la lotta di classe si sconfigge soltanto facendo vivere nel modo migliore possibile gli operai e le loro famiglie, perché gli operai sono il vero patrimonio degli imprenditori, e perché non è giusto che il padrone intaschi per se’ tutti i profitti e se ne infischi di come vivono loro.
Davanti a una piccola società creata e organizzata in modo mirabolante, ricordo che dissi a Marina “ma questo è il socialismo reale, è l’Unione Sovietica riuscita bene”. Lei invece, per tutta risposta, scoppiò a piangere. Perché tutto questo apparteneva al passato. Resisteva e resiste ancora, ma era stato fermato per sempre dalla forza distruttiva del neocapitalismo arrembante.
Pietro Marzotto era il settimo figlio di Gaetano Marzotto. Sua madre morì poco dopo la sua nascita e lui non la vide mai.
Come spesso accade, questo bambino che non aveva conosciuto sua madre pensò di essere in qualche modo responsabile della sua morte. Si dedicò prestissimo all’azienda di famiglia, cominciò come semplice operaio, svolse per tre anni le più umili mansioni in fabbrica senza nemmeno percepire i contributi, e riuscì in seguito ad espandere la Marzotto in tutto il mondo investendo tutto ciò che la famiglia possedeva per acquistare i più grandi marchi dell’abbigliamento (da Hugo Boss a Valentino, a Lacoste) e superare così una grave crisi provocata ad arte dal ricatto della corruzione politica che lo aveva letteralmente messo in ginocchio.
Quasi senza accorgersene, Pietro aveva creato il più grande polo tessile del mondo. E quando si presentarono gli avvoltoi della finanza per indurlo a fare i soldi con i soldi e a moltiplicare in modo spregiudicato i suoi profitti con gli stratagemmi azionari, Pietro li mise alla porta spiegando loro che aveva creato quello che aveva creato soltanto per mantenere in vita le fabbriche, gli operai e le loro famiglie.
Ma la maledetta finanza riuscì a rientrare dalla finestra con la forza corruttrice del denaro e Pietro Marzotto venne “cacciato”, come rivelò lui stesso al Corriere della Sera nel 2012.
“Sono un uomo poco incline al compromesso, non sono mai stato molto amato”, disse un giorno. Per questo stesso motivo, io l’ho amato molto.
Nel Natale del 2016, Pietro Marzotto sapeva già di non aver più molto da vivere. Radunò figli e nipoti e disse loro che era venuto il momento di consegnargli, in vita, tutto quello che possedeva con allegata una sola, precisa raccomandazione: “Sarete molto meno ricchi di tanti vostri parenti, ma ricordatevi che i soldi non sono importanti. È importante ciò che si crea, è importante il lavoro. Investite sempre i soldi nel lavoro, non cercate di speculare, la speculazione è nemica del lavoro”.
Pietro Marzotto ha sempre avuto uno spiccato, quasi infantile senso di giustizia e ha combattuto a viso aperto tante battaglie contro i cosiddetti “industriali di Stato”. Gli hanno spesso offerto la presidenza di Confindustria, ma lui rispondeva dicendo “sono un industriale, non sono un confindustriale. Un industriale deve stare in fabbrica sei giorni su sette, un confindustriale fa l’esatto contrario, sta sei giorni su sette in Confindustria”.
Pietro è stato l’unico che ha sempre detto quello che pensava di Berlusconi. Più che detto, fatto. Restituì l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro perché pretendeva la radiazione di Berlusconi che ne infangava il prestigio. Alla fine, Berlusconi fu convinto a rinunciarvi (non avrebbero mai avuto il coraggio di cacciarlo via) ma non ha mai smesso di farsi chiamare Cavaliere.
Nel Natale del 2013, parlammo di Matteo Renzi. Lui disse che bisognava per forza fidarsi di Renzi perché non c’erano alternative. Gli risposi che era difficile fidarsi di Renzi. Lui mi guardò come si guarda un vecchio comunista impenitente. Ma nel dicembre scorso a Vicenza, nella sua ultima apparizione pubblica, disse senza mezze misure che Renzi lo aveva gravemente deluso, e quando subito dopo gli domandarono di Berlusconi, rispose che in Berlusconi non aveva mai creduto.
Marina Marzotto mi ha raccontato che ieri un signore ha chiesto di poter entrare nella stanza dove Pietro si trovava ormai in coma irreversibile. Lei lo ha lasciato entrare e lui, piangendo, gli ha spiegato di essere un piccolo imprenditore che aveva fallito ed era stato salvato in extremis da Pietro. Ma non ho idea di quanti possano essere i piccoli imprenditori veneti che furono salvati prima da Gaetano Marzotto e poi da Pietro Marzotto. Tanti. Tanti e poi tanti. Scommetto che li vedremo tutti, il 2 maggio, al suo funerale a Valdagno.
Voglio chiudere con un particolare che mi ha sempre affascinato e di cui Marina mi ha raccontato il retroscena soltanto 24 ore fa.
Pietro Marzotto, per tutta la vita, ha portato in viaggio con se’ un cuscino. Diceva che i cuscini degli alberghi erano scomodi. Ho fantasticato per anni su questo dettaglio e io questo cuscino l’ho messo sempre in qualche modo in relazione con la mancanza d’affetto che ha patito fin dalla nascita per la perdita di sua madre. Ma non l’ho mai visto quel cuscino. Ieri Marina mi ha rivelato che quel cuscino era il cuscino della sua culla.
Per trattenere le lacrime, mi faccio come sempre aiutare dal cinema. Quel cuscino era esattamente il suo Rosebud, cioè l’oggetto infantile e misterioso che ossessiona il Cittadino Kane di Orson Welles fino alla morte e fino alla fine del film. Prima di morire, Welles affermò che l’idea di Rosebud, dopo tanti anni, gli sembrava un inutile orpello del film. Invece era forse la sua intuizione più straordinaria.
Grazie Pietro, anche per questo.

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