Gianni Forte: oggi il teatro  è ancor più necessario
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Gianni Forte: oggi il teatro  è ancor più necessario

Il parere di uno dei protagonisti della scena internazionale. Una riflessione sul triennio della “Performing arts” e i nuovi impegni del regista.

Gianni Forte: oggi il teatro  è ancor più necessario
In foto: il drammaturgo Gianni Forte
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29 Aprile 2025 - 13.21 Culture


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di Luisa Marini

Gianni Forte* è una delle voci del teatro contemporaneo internazionale. Con lo sguardo rivolto all’uomo e alle sue contraddizioni, scrive da sempre testi che sollecitano lo spettatore a una riflessione profonda sull’uomo e sul  mondo. Lo incontriamo in un momento di cambiamento, dopo l’esperienza della compagnia ricci/forte performing arts, attiva dal 2005 al 2021 con spettacoli e workshop apprezzati in tutto il mondo, e dal 2021 al 2024 alla co-direzione della Biennale Teatro a Venezia.

Lei ha appena curato la nuova traduzione italiana de La morte difficile del surrealista René Crevel per le edizioni Ventanas. Cosa l’ha spinta a confrontarsi proprio adesso con il testo di questo autore? 

Crevel è uno scrittore che infiamma, che non si lascia sfiorare senza lasciare tracce indelebili. Il suo stile è febbrile, nitido e immaginifico. Ho deciso di tradurre La morte difficile perché percepivo che le sue ossessioni – l’identità, il desiderio, il dolore – risuonano con una potenza disarmante nel nostro tempo. È un’opera che sembra scritta ieri, nonostante abbia quasi cent’anni. Non c’è nulla di datato nella sua vertigine. 

Quali scelte di traduzione ha fatto per restituire l’essenza di questa storia?

Nel renderla in italiano, non ho tentato di “semplificare e normalizzare” la sua densità, la sua complessità. Al contrario, ho voluto assecondare le sue dissonanze, le interruzioni, quel continuo slittamento tra il privato e il collettivo, tra il sogno e l’analisi. Ho permesso all’ambiguità di emergere, alla tensione di vibrare tra le righe, lì dove pulsa il cuore dell’opera. Crevel non scrive per chiarire, ma per evocare, per ferire e illuminare allo stesso tempo. Riproporre questo romanzo oggi significa offrire al lettore un’esperienza radicale, un incontro con una scrittura che non consola, ma percuote.

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È stato un percorso di immersione totale, quasi medianico: ho cercato di restituire non solo le parole, ma il battito, l’inquietudine sotterranea che le genera. Questa nuova edizione è una scommessa vinta sulla possibilità di ascoltare ancora – nel frastuono attuale – la voce limpida e feroce di chi ha saputo raccontare la morte come un’estrema dichiarazione d’amore.

Il suo ultimo testo, Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo, ha debuttato lo scorso marzo al Teatro Franco Parenti, restando in scena per un mese, con grande successo.

La pièce nasce dalla volontà di esplorare cosa accade quando il nostro io si frantuma, si moltiplica, si disorienta. Mi sono lasciato ispirare – con libertà onirica – dalla vicenda reale di Billy Milligan, ma ciò che ho inteso trasmettere è una partitura emotiva dell’inconscio: un teatro della psiche, dove ogni presenza è l’eco di una voce interna, una crepa, una memoria che non si ricompone mai pienamente. 

Di cosa parla quest’opera e da dove nasce l’urgenza di scriverla? 

Il testo è maturato come fanno i sogni: lentamente, tra interrogativi, vertigini e assenza di certezze. Grazie alla direzione di Fausto Cabra, al sostegno produttivo di Andrée Ruth Shammah e all’anima degli attori/performer Raffaele Esposito, Anna Gualdo e Elena Gigliotti, le mie parole sono diventate carne, suono, assenza. Non volevo proporre risoluzioni, ma spazi aperti in cui perdersi. Il linguaggio della pièce è fatto di stratificazioni, di gesti che ritornano, di presenze che sfuggono. E quando, alla fine, il silenzio precede l’applauso, sembra quasi che anche chi guarda abbia attraversato il proprio labirinto.

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È stato di recente nominato Direttore Artistico dei Teatri di Bari per il triennio 2025/2027: un ritorno alla sua terra d’origine. In che modo l’esperienza alla Biennale ha influenzato la sua visione?

Rientrare in Puglia è come tornare in un luogo mai realmente abbandonato. C’è qualcosa nella luce, nei silenzi, nei volti che riconosco, che sento parte di me fin da quando ero bambino. Assumere la Direzione Artistica Inter/Nazionale dei Teatri di Bari, insieme a Teresa Ludovico, rappresenta per me una “chiamata all’ascolto” di ciò che già pulsa nel sottosuolo creativo di questa regione. Il rientro è un gesto d’amore, visione e progettualità: ricucire legami e aprirne di nuovi. Immaginare un teatro che sia varco, non rifugio, che accolga, ma anche scuota. 

Quali saranno le linee guida della sua nuova direzione artistica? 

Le parole chiave che mi guideranno sono: tramaosmosipresenza; trama come intreccio di percorsi, voci, linguaggi; osmosi come superamento di barriere tra le arti, tra le generazioni, tra i confini; presenza come slancio affinché il teatro accada ovunque: in una radura, in una scuola, in capannone abbandonato, in uno spazio industriale dismesso. Non cerco spettatori da accontentare, ma comunità che si interrogano e che palpitano insieme nel confronto vivo con la scena.

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Sta già lavorando a un nuovo testo?

Durante la mia residenza all’Istituto Italiano di Cultura di Praga, e grazie ad essa, ho iniziato a scrivere in francese Tu seras celle qui fait cesser la pluie (Sarai tu a far cessare la pioggia, il titolo italiano), che rilegge il mito di Antigone e lo trasferisce nell’Iran di oggi, a Teheran.

Cosa l’ha spinta a immaginare questa trasposizione? 

In questa scrittura, la ribellione non è solo un gesto politico, non ha il suono delle armi, ma è un’espressione profondamente intima. Antigone diventa Anahita (dal nome della dea persiana dell’acqua e della purezza) e incarna la forza sacra di chi rifiuta di piegarsi. È una donna che si ritrova a dover scegliere se tacere o affermare la propria voce in una società che la vorrebbe assente, trasparente, invisibile. Non è una rivoluzione gridata, ma una determinazione silenziosa che scardina l’ordine, incide nell’ostinazione.  

Quali temi sta esplorando? 

Sto investigando i temi dell’identità, della dignità, della lealtà verso sé stessi. Ma soprattutto il coraggio di dire “NO” anche quando tutto sembra spingerti ad arrenderti. È una tragedia in cui il vero atto eroico è restare fedeli alla propria autenticità, alla propria verità, pur consapevoli del prezzo altissimo da pagare. 

*Gianni Forte è drammaturgo, regista e traduttore. La sua carriera si è articolata tra teatro, scrittura e formazione.

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