"Aspettando Re Lear": Alessandro Preziosi in sala per il docufilm a Roma
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"Aspettando Re Lear": Alessandro Preziosi in sala per il docufilm a Roma

Tra specchi e labirinti, "Aspettando Re Lear" di Preziosi e Pistoletto ci conduce in un viaggio emotivo. Dal 5 al 7 maggio al Cinema Farnese

Aspettando Re Lear - docufilm - Alessandro Preziosi - intervista di Alessia de Antoniis
Aspettando Re Lear - il docufilm di Alessandro Preziosi
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29 Aprile 2025 - 19.32


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di Alessia de Antoniis

Un uomo perde il trono, perde l’amore, perde se stesso. Cosa resta quando tutto crolla?

Aspettando Re Lear, il nuovo docufilm di Alessandro Preziosi con Michelangelo Pistoletto, debutta a Roma al Cinema Farnese Arthouse.
Scritto da Preziosi insieme a Tommaso Mattei, il film sarà presentato in prima assoluta: lunedì 5 maggio, alle ore 21, il regista incontrerà il pubblico per la proiezione inaugurale.
Le repliche di “Aspettando Re Lear” seguiranno martedì 6 maggio e mercoledì 7 maggio, entrambe alle ore 19.
Un evento imperdibile che unisce teatro, arte contemporanea e psiche, in uno dei luoghi simbolo del cinema d’autore a Roma.

Non un semplice documentario, non solo teatro, non ancora cinema. “Aspettando Re Lear” è un viaggio immersivo là dove arte contemporanea, psiche e memoria shakespeariana si specchiano l’una nell’altra, frantumandosi e ricomponendosi come in un prisma emotivo.

Un progetto coraggioso grazie al quale Preziosi, attraverso prove teatrali, installazioni di Pistoletto, riprese tra palcoscenico e palazzi storici, accompagna lo spettatore in un labirinto mentale senza via di fuga, dove il potere si sgretola, la paternità si deforma e l’identità si smarrisce.

«La vera chiave di svolta – racconta Alessandro Preziosi – è stata smettere di raccontare la storia e cominciare a mostrare la costruzione del personaggio sotto gli occhi dello spettatore. Un Lear che perde il potere, perde l’amore, perde la maschera. E infine si riconosce, nudo, nello specchio.»

Non è una riscrittura, è una sorta di prisma attraverso cui il Lear shakespeariano viene scomposto e ricomposto. Quando ha affiancato all’operazione teatrale questa cinematografica, ha trovato resistenze a questa forma ibrida?

Inizierei dal concetto di resistenza. Non sono riuscito inizialmente a combinare istintivamente un bilanciamento tra le riprese teatrali e quelle cinematografiche. Per cinema si intende dare grande respiro a un contesto teatrale, che è una scatola nera, e difficilmente riesci a farlo passare per cinema se non con delle riprese dello spettacolo stesso. All’inizio c’è stata una grande difficoltà nello scegliere i momenti che potevano essere portati fuori dal palco. Abbiamo dovuto scrivere la sceneggiatura immaginando: dove e con quali atmosfere il nostro Re Lear può perdere la figlia e ritrovarla?

Il problema principale era rendere plausibile il contesto spazio-temporale. Anche la semplice scelta dei costumi era importante per rendere i nostri personaggi credibili fuori dal teatro. La svolta è arrivata quando abbiamo deciso di utilizzare per il racconto cinematografico non solo la storia, le tematiche, i luoghi; ma quando abbiamo permesso  allo spettatore di entrare immersivamente nella costruzione di un personaggio Shakespeariano. La resistenza incontrata è stata nell’incontro fra due generi e  nella difficoltà di dare respiro cinematografico al racconto teatrale

Non possiamo definire Pistoletto semplicemente uno scenografo. È un autore dell’azione artistica. Come avete condiviso lo spazio scenico? Come dialogano due protagonisti come Preziosi e Pistoletto?

In scena, Michelangelo Pistoletto ha occupato lo spazio con pochi oggetti legati al concetto di arte povera: una tavola, una porta, uno specchio, una struttura per parlare in piedi, un letto. Non c’è modo peggiore di occupare la scena con delle cose così astratte come opere d’arte che, se non diventano parte integrante del racconto, se non sono visitate dall’attore, restano semplicemente realtà museali.

Il dialogo tra me e Michelangelo è stato di assoluta libertà: nessuno mi ha imposto come usare gli oggetti. La messa in scena è frutto di un complicatissimo lavoro registico concettuale, che ha reso l’arte più accessibile e il testo più immediato. Anche le persone che non conoscevano la storia hanno capito la modernità del rapporto tra un padre e un figlio che parlano attorno a un tavolo; la gabbia di una struttura per parlare in piedi che diventa una gabbia mentale, un luogo dove processare il re o addirittura una scogliera da dove passare per poter arrivare da una parte all’altra. E così è stato con lo specchio e con la porta.

Michelangelo mi ha fatto il complimento più bello, ha detto “grazie al tuo spettacolo la mia arte è diventata popolare. Conserva la sua concettualità ma, grazie ai personaggi che agiscono in scena, quell’arte acquista un’immediatezza agli occhi dello spettatore che di solito le opere non hanno”.

In scena un Lear privato del potere, della ragione, che non ha più la maschera. E uno specchio. Cosa ci restituisce quello specchio, quale Lear e quale uomo?

Lo specchio riflette un Lear incapace di guardarsi dentro. Perché se guardasse fino in fondo si accorgerebbe che quel niente di cui parla, riassunto nell’inutile tentativo di mettere sullo stesso piano l’amore e l’eredità, che è la cerniera di tutto lo spettacolo, rappresenta la morte del linguaggio. E quando finalmente si riconosce, dopo un percorso tortuoso, si vede denudato, libero da tutte le sovrastrutture: il povero animale, bipede, ignudo, quale siamo tutti noi. E ritrova la figlia proprio perché riconosce la sua natura più autentica.

Qual è il punto esatto in cui Lear comincia a capire?

Nel momento in cui incontra Edgar. È stato un passaggio drammaturgico fondamentale. Lear non è solo un padre tradito, che ha perso il potere e l’amore delle figlie; è un uomo che non riconosce più neanche il senso delle sue parole.

In che modo Pistoletto ti ha aiutato a dare forma a questa deriva?

Attraverso il labirinto scenico. Un elemento che rappresenta uno spazio mentale senza via di fuga apparente. Questo spazio è diventato una parte fondamentale della drammaturgia visiva dello spettacolo.

Nel docufilm emerge il grafema dell’infinito di Pistoletto, segno del Terzo Paradiso. In che modo questo simbolo entra nella partitura drammaturgica dello spettacolo?

Il Terzo Paradiso rappresenta il passaggio attraverso cui l’uomo si rigenera. È un percorso non lineare ma curvo, come il simbolo che domina il pavimento. Un cammino condiviso da Lear e Gloucester.

Hai già attraversato il mondo di Lear in passato. Cosa porti con te da quelle esperienze?

Porto la consapevolezza di quanto sia complicato affrontare Shakespeare. Il mio primo Re Lear è stato, a mio avviso, un fallimento personale, condizionato anche dalla giovane età e dalla pressione di una popolarità che era appena esplosa. “Aspettando Re Lear” è stato un vero e proprio adattamento personale. Questo testo non ha un rapporto così immediato con Godot: per me è più un modo per dare una nuova speranza all’uomo. Un non dimenticare di dare una possibilità a qualcuno.

Come hai lavorato sulla lingua originale di Shakespeare? Hai avuto la sensazione che alcune parole oggi non avessero più senso?

Sì, assolutamente. Ed è stato un lavoro meticoloso fatto con Tommaso Martelli, mio amico e traduttore. Abbiamo rivisto e adattato il testo per renderlo più accessibile, mantenendo comunque il rispetto dell’originale.

Vista la sofferenza cronica di finanziamenti nel teatro italiano, qual è oggi secondo te il ruolo dell’arte visiva nella scena teatrale italiana? Il pubblico è assuefatto a scenografie con un tavolo e due sedie. E voi attori?

Io non mi rassegno al minimalismo esasperato. Per me teatro è condividere un percorso, capire insieme. E, per farlo, il teatro deve potenziare il linguaggio scenico. Il vero problema è che il teatro deve tornare a essere itinerante, raggiungendo anche i piccoli centri. Se il teatro non torna ad avere facilitazioni per poter girare, morirà perché il pubblico non si rinnoverà. Quindi il problema non è solo l’essenzialità del racconto scenografico – e per evitarlo bisogna avere degli investimenti – il punto è che per recuperare gli investimenti, lo spettacolo deve girare. Bisogna tornare alla tournée. Andare in tour.

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