Lo spirito di Mereu a Siena: "liberi, rispettati, uguali"

La celebrazione congiunta del 25 Aprile e di Sa Die de Sa Sardigna. Tra canti e commensali felici, l'anima del poeta sardo medita sull'unione tra lotta per l'identità e la liberazione nazionale

Lo spirito di Mereu a Siena: "liberi, rispettati, uguali"
Peppino Mereu
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25 Aprile 2025 - 13.25 Culture


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di Lorenzo Lazzari

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Oggi, 25 aprile, il Circolo Sardo intitolato a Peppino Mereu si riunisce per un pranzo conviviale a base di specialità isolane. Questa giornata assume un doppio significato celebrativo con la “Liberazione d’Italia”, e anticipatorio per la commemorazione de Sa die de sa Sardigna, la Giornata del Popolo Sardo che cade il 28 aprile; data che ricorda la cacciata dei funzionari piemontesi da Cagliari nel 1794 (evento noto anche come i “Vespri Sardi” n.d.r.), simbolo dell’orgoglio e della ricerca di autonomia dell’isola.

Il Circolo è dedicato a Peppino Mereu (1872-1901), poeta originario di Tonara, voce potente e malinconica della Sardegna a cavallo tra Ottocento e Novecento. Malgrado la sua breve vita, segnata dalla malattia, Mereu seppe cantare con versi indimenticabili le ingiustizie sociali, l’amore per la sua terra e l’anelito alla dignità del popolo sardo, lasciando opere celebri come “A Nanneddu Meu” (lettera a Nanni Sulis n.d.r.).

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Il testo che segue è un esercizio di immaginazione con cui ho voluto provare a calarmi nei panni, o meglio, nello spirito di Peppino Mereu. È una mia interpretazione di come il poeta, se potesse osservare questa festa oggi potrebbe percepirla, con i suoi occhi di testimone di un’altra epoca, negli echi di un passato oramai remoto e celebrazioni di libertà a lui ancora sconosciute.

Lascio quindi la parola a questa voce immaginata che ritrae la giornata odierna:

Siena, Ponte a Tressa, fine aprile… di un tempo che non è il mio.

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Che strana brezza mi porta qui, così lontano dalla mia Tonara, tra queste mura antiche che non sono quelle della mia isola. C’è un’aria di festa, voci, risate… e musica. Un coro di voci maschili, potenti e familiari. Cantano… conoscono queste parole? Parole che sgorgarono dal mio petto giovane e malato, intrise della polvere delle nostre strade, del sapore amaro delle ingiustizie. Sentirle qui, ora, così vive… è come uno spillo nel cuore, dolce e doloroso.

Si stringono attorno ai tavoli, mangiano, bevono. Hanno volti sereni, ma nei loro discorsi sento l’eco di lotte passate. Parlano del 28 aprile… sa die nostra, il giorno della fierezza ritrovata, quando Cagliari si scrollò di dosso i funzionari venuti da lontano, quelli che ci guardavano come terra da spremere. Sì, ricordo bene quella storia, la portavamo nel sangue anche noi, figli di quell’orgoglio ferito.

Ma poi… parlano anche di un’altra data, vicinissima. Un 25 Aprile, un’altra liberazione, dicono. Da un giogo diverso, forse più oscuro, che io non conobbi. Fascismo, lo chiamano. Vedo sventolare la nostra bandiera, i Quattro Mori, ma accanto un’altra, a tre colori, che ai miei tempi rappresentava quel Re e quello Stato che spesso sentivamo distanti, se non ostili. Eppure, oggi sembrano celebrare insieme, sotto entrambe le insegne, uno stesso anelito di libertà.

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E poi… sento pronunciare il mio nome. Peppino Mereu. Lo legano a questo ritrovo, a questa festa. Io? Che vissi brevemente, con pochi mezzi, consumato da un male che non perdona? Io, che nell’ultimo, gelido inverno, gettai nel fuoco i miei stessi versi per un briciolo di calore… vedere il mio nome onorato qui, ora, in questa celebrazione di popolo libero… mi riempie di una commozione che quasi mi dà corpo.

Osservo i volti. Giovani, vecchi. Alcuni hanno i tratti familiari della nostra gente, altri no. Ma condividono lo stesso spirito. Forse quel sogno che accarezzavo, quello di un mondo “senza distinziones curiales“, dove tutti potessimo essere “fizzos de un’insigna, liberos, rispettados, uguales“… forse non era solo utopia di un poeta febbricitante? Vedere questa gente unita, che ricorda le lotte per la dignità – quelle della nostra isola e quelle di questa nazione più grande – mi fa pensare che qualcosa, nel lungo cammino dell’uomo, sia andato avanti.

Le note del coro di Macomer si alzano ancora. Cantano di Nanneddu, delle pene d’amore e di vita. E io fluttuo tra loro, spirito invisibile tra commensali felici, sentendo un calore che non ricordavo, un’eco della mia voce in un futuro che non avrei mai immaginato. Chissà se là, nella mia Sardegna, sentono ancora questa stessa forza, questa stessa voglia di non chinare mai la testa. Qui, oggi, sembra di sì e il mio cuore errante, per un istante, trova pace.

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